Sono passati otto mesi da quando la vita, in Afghanistan, è cambiata radicalmente. Da quando tutti hanno perso tanto, ma soprattutto le donne, che hanno perso ogni diritto, anche quello di essere. Se il regime dei talebani aveva lasciato intendere che ci fosse qualche speranza di riacquisire alcuni di quei diritti perduti, era chiaro sin dall’inizio che quando si parla di donne non c’è mai da fidarsi. La settimana scorsa, gli istituti secondari, equivalenti delle nostre medie e superiori, avrebbero dovuto riaprire i battenti anche alle ragazze, ma poco prima di rientrare in classe il governo è tornato sui suoi passi e ha impedito la riapertura delle scuole femminili in Afghanistan.
La giustificazione, più una scusa che un reale motivo, riguarda l’abbigliamento: non è stato studiato un protocollo per le divise scolastiche che rispettino i criteri imposti dalla Sharia sull’abbigliamento femminile. Una piccola svista di cui si sono accorti giusto in tempo per impedire il rientro in classe e a cui evidentemente non avevano avuto modo di pensare prima. In seguito al dietrofront, decine di persone sono scese in piazza a manifestare e le immagini delle proteste sono giunte fino a noi. Ma oltre a osservare inermi e neanche troppo interessati le condizioni alle quali vivono le donne afghane, è importante chiederci il motivo, che cosa esattamente significhi negare l’istruzione alle donne, perché dopotutto l’abbiamo fatto – e lo facciamo – anche noi.
Secondo l’ONU, garantire un’istruzione di qualità a tutti i cittadini del mondo è uno degli obiettivi da raggiungere per vivere in una società equa e sostenibile. L’organismo internazionale ha inserito il diritto all’istruzione nell’Agenda 2030, un insieme di 17 obiettivi di sostenibilità ambientale, sociale ed economica pensati per migliorare il futuro dei cittadini del pianeta. Ma, per come stanno andando le cose, è probabile che saranno molti i punti disattesi per il 2030. Ciò che è certo è che l’istruzione è uno degli argomenti più delicati e uno dei diritti più trascurati, soprattutto nelle aree del mondo con maggior povertà o in cui c’è meno libertà.
Ciò di cui parla l’Agenda delle Nazioni Unite, infatti, non è solo imparare a leggere, scrivere e tenere di conto. Dopotutto anche in Afghanistan le scuole primarie femminili sono aperte. C’è, invece, qualcosa di più che dobbiamo cogliere.
L’obiettivo ONU non riguarda semplicemente il diritto all’istruzione, ma a un’istruzione di qualità. Con questo termine non si intende permettere a tutti di frequentare le cosiddette buone scuole, né di avere insegnanti dal curriculum accademico altisonante, quanto invece di avere accesso a un’istruzione non condizionata. Non condizionata dai regimi, dalla propaganda, dai pezzi di storia che si vuole omettere o esaltare, non influenzata dalla morale, non subordinata alla religione, indipendente. Insomma, un accesso agli studi libero, che faccia più di insegnare nozioni.
È questa l’istruzione che manca in troppi angoli del mondo, è questa quella che alle ragazze afghane è negata. Era l’istruzione negata alle nostre nonne, che si fermavano alla terza elementare mentre ai nostri nonni era permesso di raggiungere la quinta, e qualcuno aveva addirittura la possibilità di ottenere la licenza media. Era l’istruzione negata alle donne mandate al rogo con l’accusa di stregoneria se mai avessero padroneggiato qualche disciplina diversa dal figliare. Era l’istruzione negata a tutte le donne che non potevano andare all’università mentre i loro fratelli potevano eccome, o al più potevano studiare solo materie considerate inutili dal punto di vista produttivo e capitalistico.
Questa tendenza all’esclusione del mondo femminile dall’istruzione non ha solo a che fare con l’importanza delle donne all’interno della società e con la mancanza di volontà di investire nell’istruzione di esseri umani destinati ad altro, dietro si nascondono concetti più complessi. L’ignoranza è semplice da controllare. Una persona che non ha avuto accesso agli studi è facilmente manipolabile, il tipo di individuo preferito dal potere. Gli può essere raccontata qualunque cosa, per esempio che le donne devono pensare solo a prendersi cura della casa e dei figli e a soddisfare i loro mariti. Gli si può dire qualunque verità edulcorata pensata per ottenere esattamente ciò che si vuole. Lo si può controllare.
L’istruzione, invece, la cultura non fanno solo conoscere le nozioni da imparare a memoria, ma fanno pensare, ragionare, mettere in discussione. Impediscono di dare tutto per scontato. Per questo, quella di qualità che è negata alle donne tenute fuori dalle scuole femminili in Afghanistan, è il nemico principale del potere, perché impedisce di controllare le persone. E le donne, quell’inferiore metà del mondo, devono necessariamente risultare controllabili per non rompere il precario equilibrio che permette di mantenere il dominio anche su tutto il resto. Non è una prerogativa talebana, dopotutto, quella di rendere la società un rigido insieme di gerarchie, un sistema di premiati e penalizzati, di privilegi costruiti sui diritti mancati di qualcun altro, con l’unico obiettivo di creare comunità docili, facilmente manipolabili, innocue per la persistenza del potere.
Che le scuole femminili in Afghanistan siano chiuse non dovrebbe sorprenderci. Che le donne non abbiano alcun diritto, da quello all’istruzione a quello di appartenere a loro stesse, da quello di disporre dei propri corpi a quello di sapere che ci sono altri modi di vivere, altri mondi possibili, non è strano. È intollerabile, deplorevole e incredibilmente ingiusto, ma non è strano. È come il mondo ha girato per millenni e solo ora ci stiamo lentamente e maldestramente facendo i conti.
Solo ora iniziamo a renderci conto che le storture sono tutte collegate, che i diritti negati sono funzionali al potere violento, o che il potere violento dipende dal sistema patriarcale. E iniziamo a rendercene conto perché possiamo vedere, grazie ai nostri diritti, cose che prima non potevamo scorgere. E che, ancora oggi, chi nasce nella parte sbagliata del mondo non può percepire.