Per la prima volta dall’inizio della sanguinolenta avanzata israeliana, le Nazioni Unite hanno deliberato un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. La notizia è arrivata nella giornata di lunedì 25 marzo, quando – nonostante l’astensione degli Stati Uniti – il parere favorevole di quattordici Paesi ha permesso l’approvazione di un documento importante che potrebbe diventare significativo. Ma in cosa consiste?
Proposta dal Mozambico e votata, tra gli altri, anche da Russia, Cina, Francia e Regno Unito (i soli che insieme agli USA hanno diritto di veto), la risoluzione chiede un cessate il fuoco temporaneo per il Ramadan (che si concluderà tra il 9 e il 10 aprile), il rilascio immediato e incondizionato degli ostaggi, nonché la garanzia di libero accesso umanitario per far fronte alle emergenze nella Striscia.
Su carta, Israele è tenuto a rispettare la decisione dell’ONU, ma nei fatti risulta difficile immaginare un passo indietro, seppur momentaneo, di Benjamin Netanyahu. Per quanto apparentemente più solo sul piano internazionale, infatti, il Presidente israeliano non ha mai tentennato dinanzi al genocidio in atto, rivendicandone sempre la violenza e lo scopo ultimo: la cancellazione del popolo palestinese, di certo non la tutela degli uomini e delle donne nelle mani di Hamas.
Dallo scorso 7 ottobre, i bombardamenti hanno causato oltre 30mila morti e più di 71mila feriti tra i palestinesi. 10mila erano bambini. In pratica, sono stati uccisi più infanti in cinque mesi che in tutte le guerre del mondo negli ultimi quattro anni. E non è un caso: uccidere i più piccoli significa uccidere il futuro, cancellare anche la più remota possibilità che esso si concretizzi. Uccidere i più piccoli è il primo, vero, passo verso lo sterminio di un popolo. Come si spiega, altrimenti, un bambino massacrato ogni dieci minuti?
Save the Children sostiene che bombardare una zona così densamente popolata da minori di 18 anni significa bombardare l’infanzia. Dichiararle guerra. E che guerra è quando soltanto l’aggressore ha armi, esercito, soldi e sostegno? Che guerra è quando l’aggredito non ha nulla con cui rispondere?
Quasi due dei 2,4 milioni di abitanti di Gaza sono sfollati, di cui un milione di minori. Senza acqua, senza cibo, senza servizi igienici. Un bambino su tre, sotto i due anni, sta morendo di fame. A metterlo nero su bianco è, tra i vari, il più recente rapporto dell’IPC (Classificazione integrata delle fasi di sicurezza alimentare dell’ONU) che parla di carestia imminente nel nord della Striscia, un disastro che il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres ha definito interamente causato dall’uomo e che, per questo, può essere fermato: «Dobbiamo agire ora per prevenire l’impensabile, l’inaccettabile e l’ingiustificabile». È cosa è più impensabile, inaccettabile, ingiustificabile di quello a cui stiamo assistendo?
Da ottobre a febbraio, il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha ricevuto segnalazioni di 5118 palestinesi dispersi a Gaza. Se sono “soltanto” scomparsi è difficile, quasi impossibile, saperlo: il Ministero della Salute della Striscia, infatti, basa i propri conteggi di morte soprattutto sui rapporti degli ospedali ma, con il sistema medico nel caos, le strutture ospedaliere bombardate e il personale sanitario torturato, i funzionari dicono che molti decessi non sono stati registrati. Israele, nel frattempo, non rivela le identità delle centinaia di persone trattenute dai suoi uomini. Saranno, questi, corpi da piangere o racconti da tramandare?
È difficile pensare a qualcosa di più inaccettabile. Ancora Save The Children dichiara che è improbabile che un solo bambino a Gaza sia rimasto intatto da lutto o perdite personali. Ciò significa che i fattori che guidano l’attuale crisi di salute mentale nella Striscia si sono drammaticamente aggravati. Eppure, è un tema di cui non si discute. Si parla di vite cancellate, di arti amputati, di edifici distrutti: ma come si cura l’animo umano? Come si rimettono insieme i pezzi di una psiche nata e cresciuta sotto occupazione? A chi sopravvive cosa resta?
Intanto, mentre a Gaza si muore di fame e di stenti, di bombe e atrocità, il portavoce delle forze di difesa israeliane per i media arabi ha pubblicato sui social un video in cui banchetta con i soldati di Netanyahu. È il suo modo per celebrare l’inizio del Ramadan, uno sfregio che ne ricorda altri e che conferma l’obiettivo: l’annientamento totale dei palestinesi. A cosa risponde, altrimenti, la scelta del governo di impedire l’accesso dei convogli umanitari dell’UNRWA all’interno della Striscia?
Nella sua guerra personale contro Guterres, con il quale – citiamo – l’ONU starebbe prendendo una deriva antisemita, fiancheggiando di fatto il terrorismo, nel fine settimana Netanyahu ha deciso di vietare l’accesso dei mezzi alimentari delle Nazioni Unite, scatenando non poche reazioni e, probabilmente, anche la votazione di lunedì. Un muro contro muro, dunque, che ha portato l’OMS a dichiarare che «bloccare le consegne di cibo da parte dell’UNWRA significa di fatto negare alle persone che muoiono di fame la possibilità di sopravvivere». Bingo.
Nel tentativo di giustificare un tale scempio e, con esso, gli attacchi che sin dall’inizio porta avanti negli ospedali dove, dice, si nascondono i terroristi, Netanyahu continua a sostenere la forte collusione tra Hamas e i dipendenti dell’organismo ONU. Così, nel dubbio, ferma e distrugge tutto. Intanto, continua l’offensiva verso Rafah, nel sud della Striscia, dove vivono i due terzi della popolazione palestinese. Dagli Stati Uniti alla Francia, alla Russia, tutti chiedono di non procedere con l’invasione, addirittura Kamala Harris ha parlato per la prima volta di conseguenze, mentre Emmanuel Macron di crimine di guerra. E sebbene quello in atto non sia un conflitto bellico – ribadirlo è fondamentale – nella Striscia tutti quelli che vengono definiti atti criminosi di questo tipo sono già stati violati.
Violata è, poi, la Quarta Convenzione di Ginevra in Cisgiordania, dove dal 7 ottobre Israele ha approvato la costruzione di 3400 nuove abitazioni, che si vanno ad aggiungere alle oltre 18mila unità abitative negli insediamenti illegali approvate nell’ultimo anno. L’obiettivo, anche qui, è impedire la creazione di uno Stato palestinese, in questo modo geograficamente impraticabile a meno di una demolizione degli edifici.
Nel frattempo, Tel Aviv ha annullato un viaggio istituzionale negli USA. L’astensione ha innervosito Netanyahu, ma ancora immaginare un passo indietro suona inverosimile. La risoluzione è giuridicamente rilevante, ma non sarebbe né la prima né l’ultima a non essere rispettata da Israele nel silenzio ONU. A far sì che ciò accada tocca dunque ai Paesi che si sono espressi a favore, ma anche a tutti gli altri: sono loro, infatti, a poter e dover intervenire, imponendo sanzioni economiche e negando finalmente il sostegno a un governo che sta massacrando deliberatamente un popolo. Altrimenti la risoluzione non avrà senso e l’ONU, ancora una volta, confermerà la sua complicità.
Il peso più grande, inutile dirlo, è sulle spalle dello zio Sam. Al di là numerosi accordi, il 68% di forniture armamentarie arriva infatti dagli Stati Uniti d’America per un totale di 4 miliardi di dollari l’anno e un ulteriore pacchetto di 14 miliardi in discussione al Congresso. Certo, la Casa Bianca può congelare i rifornimenti in caso di mancato rispetto del diritto internazionale e di ostacolo ai soccorsi umanitari, ma lo ha mai fatto? Lo farà? O le basterà lavarsi la coscienza lanciando pacchi di cibo dall’alto dei cieli della sua indifferenza? L’astensione del 25 marzo può essere un avvertimento, ma per diventare credibili – e decisivi – gli USA devono trasformare questo gesto simbolico in presa di posizione. È il solo modo per fare davvero male a Netanyahu.
La risoluzione, insomma, è una parziale buona notizia che può diventare ottima se i Paesi si impegneranno, ora, a mettere Israele spalle al muro. L’obiettivo non è un cessate il fuoco momentaneo ma la pace, che non può e non deve prescindere dalla liberazione di Gaza e della Cisgiordania, dalla creazione di due Stati per due popoli.