È il 25 marzo 2024. Le Nazioni Unite celebrano un risultato a loro dire storico: per la prima volta, dal 7 ottobre, è stato votato un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. La risoluzione chiede la temporanea interruzione delle violenze nel periodo di Ramadan (che si concluderà tra il 9 e il 10 aprile), il rilascio immediato e incondizionato degli ostaggi e la garanzia di libero accesso umanitario nella Striscia. Il documento è giuridicamente rilevante, eppure non veramente vincolante: se in questo momento è impossibile immaginare un passo indietro di Netanyahu, è ancora più difficile accettare quanto sta per accadere.
Nei giorni a seguire, infatti, la furia genocida di Israele non smette di massacrare i civili in Palestina né di espandersi nella Cisgiordania già occupata. Addirittura si spinge, e uccide, al confine con il Libano e bombarda la Siria: Tel Aviv, completamente fuori controllo, ammazza persino sette operatori umanitari della World Central Kitchen. Netanyahu lo chiamerà un tragico incidente.
È martedì 2 aprile. L’organizzazione non governativa, di base negli Stati Uniti, sta lasciando la città di Deir al-Balah, nel centro della Striscia di Gaza, dove ha appena scaricato più di cento tonnellate di aiuti alimentari. Le autorità israeliane sanno – perché lo hanno coordinato – del passaggio dei convogli blindati con tanto di logo, eppure non frenano l’ennesimo attacco aereo. «Sono cose che succedono in guerra» afferma Netanyahu in uscita dall’ospedale in cui è stato operato per un’ernia. Mentre il Ministro degli Esteri Katz sente gli omologhi di Regno Unito, Australia e Polonia (le nazioni degli operatori uccisi, più USA e Canada) e l’ONU chiede chiarezza, la WCK sospende prontamente tutte le attività nell’area.
«Questo è un attacco alle organizzazioni umanitarie che si presentano nelle situazioni più terribili, dove il cibo viene usato come arma di guerra. È imperdonabile» dichiara Erin Gore, amministratore delegato di World Central Kitchen. Seguono i comunicati delle principali ONG impegnate nel mondo e, soprattutto – al momento in cui scriviamo – la sospensione delle attività a Gaza di ANERA (American Near East Refugee Aid), la più importante organizzazione non governativa presente nella Striscia dopo la UNRWA, l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi:
L’uccisione degli operatori umanitari della WCK, avvenuta meno di un mese dopo l’omicidio – ancora inspiegabile – del dipendente di ANERA, Mousa Shawwa, insieme alla morte di numerosi altri operatori umanitari e delle loro famiglie, ha portato il nostro team a concludere che fornire aiuti in modo sicuro non è più fattibile. Il continuo prendere di mira gli operatori umanitari e la mancanza di adeguate misure di sicurezza richiedono indagini approfondite e azioni immediate. Israele ha la responsabilità ultima di garantire la fornitura senza ostacoli di assistenza umanitaria urgente e di servizi di base a chi ne ha bisogno.
Ed è proprio questo il punto: il deliberato intento di Netanyahu di ignorare il diritto internazionale e la protezione dei civili, umanitari compresi, per mandare un chiaro messaggio ad Hamas come al resto del mondo. Non ci fermeremo e no, non si fermeranno. D’altra parte, perché dovrebbero?
Dopo il cessate il fuoco del 25 marzo e la reazione fintamente offesa nei confronti degli Stati Uniti – che si sono astenuti, per la prima volta senza porre il veto – il Ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant è tornato da Washington con un nuovo pacchetto di aiuti da 2.5 miliardi di dollari in cacciabombardieri F-35, bombe e munizioni. Il 68% di forniture belliche a Israele arriva proprio dagli Stati Uniti d’America per un totale di 4 miliardi di dollari l’anno e un ulteriore pacchetto di 14 miliardi in discussione al Congresso. La Casa Bianca avrebbe potuto – e può ancora – congelare i rifornimenti in caso di mancato rispetto del diritto internazionale e di ostacolo ai soccorsi umanitari, eppure non lo ha fatto nemmeno stavolta.
Come già sostenuto su queste pagine, l’astensione del 25 marzo avrebbe potuto essere un avvertimento, ma per diventare credibili – e decisivi – gli USA avrebbero dovuto trasformare questo gesto simbolico in presa di posizione, quale unico modo per fare davvero male a Netanyahu. Mettere Israele spalle al muro, imponendo sanzioni economiche e negando il sostegno a un governo che sta massacrando deliberatamente un popolo, era ed è l’unica soluzione. Invece, con questo ennesimo pacchetto, gli Stati Uniti di Joe Biden si sono impegnati a sostenere i diversi fuochi aperti da Tel Aviv: quello su Gaza, con l’ormai prossimo assalto a Rafah; quello al confine con il Libano e, infine, quello con la Siria, ufficialmente per contrastare le milizie in questo caso sostenute dall’Iran.
Non a caso, dopo il più pesante raid sull’aeroporto di Aleppo dopo anni e l’attentato che ha colpito anche il consolato di Teheran a Damasco, il Ministro degli Esteri Hossein Amirabdollahian ha accusato proprio gli USA: Un messaggio importante è stato inviato al governo americano, in quanto sostenitore del regime sionista. L’America deve essere ritenuta responsabile dell’attacco. Il Presidente iraniano Ebrahim Raisi ha ribadito che il crimine codardo non rimarrà senza risposta. A sostegno – nemmeno a dirlo – c’è l’alleato russo.
Soltanto pochi giorni fa, la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha confermato le misure ordinate a Israele per prevenire il genocidio e ne ha aggiunte di nuove, stabilendo che Tel Aviv agisca tempestivamente per garantire la fornitura – senza ostacoli – di beni essenziali e assistenza umanitaria come cibo, acqua, elettricità, medicine e assistenza medica agli abitanti della Striscia. Ha chiesto, inoltre, di garantire con effetto immediato che i suoi militari non commettano atti che costituiscono una violazione di qualsiasi diritto dei palestinesi di Gaza in quanto gruppo protetto ai sensi della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Entro un mese dall’emissione di quest’ordine, Israele dovrà presentare un rapporto per dimostrare la messa a punto delle misure.
Commentare suona superfluo, quasi un’offesa alla nostra intelligenza. A Gaza un mese non ce l’hanno. Non ce l’ha nessuno che si ritrovi a (non) vivere sotto le bombe, in piena carestia, senza nemmeno gli aiuti umanitari. Cosa deve fare, ancora, Israele per convincere la comunità internazionale che quello in atto è un genocidio? Cosa deve fare, ancora, la comunità internazionale per convincere noi, cittadini, tutti, della nostra complicità? Se sarà la storia a giudicarci, speriamo che i vincitori siano palestinesi: è il solo modo per veder scritta la verità e, forse, per essere condannati.