Una nostalgia struggente dei luoghi, del tempo, di qualcosa che si auspica, si desidera e si idealizza ma che non si è mai avuto né può mai essere raggiunto: così potremmo sintetizzare in poche parole lo stato d’animo del grande scrittore e poeta Cesare Pavese, un uomo dal carattere instabile e introverso, rinchiuso in quel suo mistero che tutt’oggi ci prodighiamo ad analizzare. Rappresenta la figura dell’eroe destinato a fallire, di colui che cerca di superare la traiettoria dei suoi sogni ma resta fisso e immobile in quel momento, colui che crede nell’amore e gli va incontro anche sotto una pioggia battente (come possiamo ricordare dalla sua prima delusione d’amore in cui prende una pleurite mentre aspetta una cantante ballerina della quale si è invaghito). Un momento che non è la fanciullezza né l’adolescenza, bensì l’età adulta che sopraggiunge subito dopo l’infanzia, una felicità e una spensieratezza mancate che segnano il poeta in maniera indelebile. Pavese è un viaggiatore senza valigia e senza biglietto, un ragazzino che desidera viaggiare, pur non avendolo mai fatto, e un adolescente non può essere tale se non scopre il mondo e la percezione delle cose con occhi ignoti e increduli. Non ha mai vissuto questa fase, però, portandosi dietro un non ricordo che custodisce con grazia.
A tal proposito, nella sua celebre opera La luna e i falò, afferma di aver girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma dal momento in cui ormai si sa tutto, l’uomo, stanco di vagabondare senza meta, cerca di mettere radici e di farsi una terra e un paese, che poi è ciò che vorrebbe anche lui, sballottato qua e là nel periodo dal 1935 al 1940 sia per motivi letterari che di stampo sociale e politico, senza avere un suo proprio spazio, quello che spera vivamente di trovare perché la sua carne duri e valga più di un comune giro di stagione.
Un paese ci vuole, se non fosse per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Il tema del ritorno si rifà al fantasticare e alla sua infanzia, Pavese torna ma sente che manca il posto dov’è nato, tiene in grembo soltanto la struggente nostalgia di quello che non c’è. Malgrado l’agiatezza economica, non è felice: una sorella e un fratello nati prima di lui sono morti prematuramente e la madre, di salute cagionevole, ha dovuto, durante la sua infanzia, affidarlo a due balie, già vedova.
Forte, nelle sue poesie, è il sentore della fine: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, You Wind of March, la parola stessa – morte – compare più di una volta quasi a volersi mettere in mostra, per non farsi dimenticare. Ma contrariamente da Pascoli, per il quale la dipartita del padre viene vista come un modo per ricadere nella propria fanciullezza, per Cesare è l’impedimento di una tappa, e vi sarà, nella sua vita, una scia di malinconia persistente che non riuscirà mai a seppellire, neanche con l’amore. Un’emozione che non manca, così come non mancano i sentimenti che il poeta riesce a trasmettere perfettamente nelle opere: Non si può bruciare la candela dalle due parti – nel mio caso l‘ho bruciata da una sola parte e la cenere sono i libri che ho scritto. […] L’amore è come la grazia di Dio – l’astuzia non serve. Quanto a me, ti voglio bene Pierina, ti voglio un falò di bene. Chiamiamolo l’ultimo guizzo della candela. Non so se ci vedremo ancora. Io lo vorrei – in fondo non voglio che questo […].
Pavese crea un proprio verso senza volerlo, del tutto consapevole però che non ne esista uno tradizionale. Come afferma lo psicologo Tito Baldini in una delle sue conferenze riguardanti lo sguardo dell’adolescenza all’interno della letteratura del Novecento, egli un giorno si scoprì a mugolare con una cadenza enfatica già da bambino e questa cadenza rivela un vero e proprio fenomeno transizionale, il cui termine, messo solitamente in relazione con un oggetto fisico che prende il posto del legame madre-figlio, in questo caso si rispecchia nell’età giovanile del poeta facendo sì che la sua fantasia possa prendere spazio nell’elaborazione di ogni pensiero. In Pavese, infatti, c’è dell’altro che va oltre la semplice parola scritta, le sue poesie rivelano un che di misterioso e di malinconico che difficilmente quando leggiamo siamo in grado di cogliere. C’è di fatto, però, che nonostante la sua fama da grande poeta, egli non sia mai felice andando sempre alla ricerca di un’altra donna, una donna che non trova perché non c’è mai stata. Nei suoi scritti, ci dà l’idea di un dolce naufragare, ma alla fine naufraga davvero. Non riesce a vivere senza quella stretta condizione che sembra irraggiungibile, si denota una fascinazione di chi guarda ma non viene mai visto, come in Due sigarette, versi in cui lo scrittore rappresenta due giovani infreddoliti che vagabondano per le strade e si soffermano a osservarle.
Ora possiamo parlare a voce alta e gridare, ché nessuno ci sente. Leviamo gli sguardi dalla tante finestre – occhi spenti che dormono e attendiamo […] traversiamo l’asfalto a braccetto e giochiamo a scaldarci.
Questo aspetto cambia direzione divenendo ancora più pungente nella poesia To C from C: la metrica è ghiacciata, Pavese sta scivolando nel vuoto. Una poesia in cui si evincono sensualità, dolcezza e intimità seppure ogni verso sia morente. In preda a un profondo disagio esistenziale, il poeta dedica alla sua recente delusione amorosa i versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, rappresenta una lei antica e imprendibile, una madre terra sessuata che, in questa così come nelle altre liriche, non riesce a raggiungere.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Pavese mette prematuramente fine alla sua vita il 27 agosto del 1950 in una camera dell’albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino, lasciando all’interno del libro Dialoghi con Leucò, un fogliettino con tre frasi vergate da lui, tra cui: L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. La mancanza è troppa nella carne e nel sangue purché la poesia o l’amore riescano a nutrirlo.