Tutti quando pensiamo all’Egitto pensiamo al Nilo, alle sue mitiche esondazioni e alle civiltà a cui ha dato vita e che oggi ricordiamo attraverso le vestigia di antiche dinastie avvolte tra le bende delle storie che vengono a raccontarci.
Tutti quando pensiamo a Londra pensiamo al Tamigi, il fiume lungo il quale i sovrani britannici festeggiano i loro giubilei al cospetto dei composti sudditi, ognuno (sub)ordinatamente bardato a festa lungo le sue ordinate sponde.
Tutti quando pensiamo a Parigi pensiamo alla Senna, alla sua rive gauche, a Jean-Paul Sartre e al Maggio francese del 1968.
Quando pensiamo a Madrid, invece, pensiamo al Manzanarre, citato ne Il cinque maggio di Manzoni insieme al Reno e, dunque, con rimandi ai fasti imperiali della Mitteleuropa di metà secolo XIX.
Tuttavia quando pensiamo all’Italia non possiamo non pensare al Po e alla valle che attraversa, anzi, di cui è il principale artefice e costruttore.
Ogni fiume è responsabile dello sviluppo del paesaggio e dei territori che gli si sono andati strutturando intorno. Fiume è persino il nome di una città, una volta italiana.
Il Po nasce dal Monviso, in località Pian del Re e sfocia nell’Adriatico, in una zona lagunare a sud della Serenissima ex-Repubblica di Venezia. Esso, però, non è solo un corso d’acqua, ma una linea della vita incisa su di un gigantesco palmo di mano, grande quanto tutta una pianura detta appunto Padana, che prende le sue mosse a partire da Torino e di cui il fiume è il padre fondatore.
Ma è il Po che scorre attraverso Torino o è Torino che vive lungo il Po? In realtà, entrambe le cose. Il rapporto tra il torrente e la città è perfettamente simbiotico sin dai tempi della primigenia Augusta Taurinorum e così, immutato, persiste fino ai giorni nostri.
Oggi, però, il Po è silenzioso, non perché tranquillo, ma perché privo di forze. Sarà la vecchiaia? No, è il cambiamento climatico, sembra volerti dire. Non piove da mesi. Ho sete e mi state dissanguando. E, mentre esso hai la sensazione che comunichi tutte queste cose, tu rimani senza parole, impotente, di fronte alla verità.
Ogni giorno al mattino, attraversandolo, non puoi non voltarti a guardarlo e fargli un saluto come se dicessi buongiorno a una persona qualunque tra quelle che incontri o che ti capiterà di incontrare lungo il corso della giornata che sta per cominciare. È un gesto di buona educazione, di rispetto, un modo per dire grazie all’unico grande vero fiume che incrocerai, in quanto gli altri saranno fatti di individui, tutti disordinatamente in fila nel seguire una corrente che potrai solo subire, in un flusso costante di tanti “sì” smemorati e ingrati.
Il Po è l’unico, vero ed eterno primo cittadino di Torino. Gorgoglia lento, agonizzante, chiede aiuto ma, dopo averlo fugacemente salutato, la città si gira dall’altra parte, avvolta in questi giorni da una nube tossica di smog e fumo che cattura la gola. Tutt’intorno brucia e, allora, il torrente sembra essere dispiaciuto della sua impotenza, della sua debolezza, della sua incapacità di poterne garantire ancora una volta la salvezza. Lo chiamano deflusso minimo vitale. Tradotto: troppo poca l’acqua che gli è rimasta per concedersi il lusso di poterla sprecare nello spegnimento di un incendio, doloso quanto la colpa di non esserci debitamente presi cura di lui, del Po, che ora piange perché si è reso conto prima di tutti che il Settentrione è in fiamme, in Val di Susa. Quando anche il Nord diventa Sud accade questo e pure di peggio. Prepariamoci a veder trasformato l’intero Stivale in un’unica, grande Regione a Statuto (molto) speciale d’Europa, sembra volerti dire.
L’obiettivo non è liberare l’Italia dalla mafia o dalle mafie, ma potenziarle affinché diventino definitivamente Stato, a vantaggio e beneficio di chi con esse sta già trattando da decenni fuori dai confini nazionali, è il messaggio che porta faticosamente con sé, a beneficio di chi ancora non ha capito o non vuol capire. Il fiume questo lo sa e te lo dice perché ne ha viste tante scorrere sulla sua pelle, è un testimone scomodo dei nostri tempi, di un’epoca di referendum lanciati alla ricerca dell’autonomia perduta, presso luoghi dove la spasmodica tentazione di voler provare a essere a tutti i costi padroni in casa nostra, va sempre più cedendo il passo verso un ben più delirante senso del possesso capace di ridurre forzatamente il mondo intero a una disarmante, misera e ben poco edificante cosa nostra.