Reinaldo Arenas, scrittore e poeta, doveva scappare da Cuba. Durante la dittatura di Fulgencio Batista era solo un ragazzino, e come tutti i più giovani si fece trasportare del vento caldo della rivoluzione comunista. Eppure, nonostante le speranze di tutti, il rovesciamento di Batista e la presa di potere di Fidel Castro non portò la primavera a Cuba. La stalinizzazione del comunismo cubano fu invece un gelido inverno: la censura calò senza pietà sulle prime opere di Arenas. L’intellettuale aveva infatti una macchia: la sua omosessualità, libera e dichiarata. Lo scrittore non si fermò e finì presto incarcerato al Morro, dove venne torturato per mesi e mesi. Dopo continue persecuzioni, Arenas si trovò con le spalle al muro: doveva scappare da quella terra che l’aveva illuso e tradito. Celestino prima dell’alba è l’unica opera che il poeta riuscì a pubblicare a Cuba, prima di fuggire negli Stati Uniti con un passaporto falso.
L’opera, la prima della pentagonia di Arenas (edita in Italia da Mar dei Sargassi Edizioni, con traduzione di Alessio Arena), porta tra le sue pagine i suoni, i colori e gli odori di quell’isola dilaniata, così forti da far quasi sparire il dolore. Celestino prima dell’alba è l’antistoria della rivoluzione, quella nascosta nel cuore della Cuba rurale, arcaica e sognante.
Tra la nebbia, le palme e gli uccelli esotici, si nasconde una casa. Ci vive Celestino, il bambino poeta che scrive sugli alberi. Celestino non ha carta né inchiostro, e ricopre di parole foglie, rami, cortecce – ogni singolo centimetro della vegetazione attorno alla casa. Ogni giorno, però, l’ascia affilata del nonno di Celestino si abbatte implacabile sui tronchi contaminati dalle incisioni. Il nonno e l’ascia sono un tutt’uno, emissari di una cieca repressione autoritaria contro quel bambino debole, inutile, diverso. Celestino è in lotta con le sue zie e i suoi nonni, e con l’intero paese: il suo scrivere sfida lo status quo, la tradizione, la sacra normalità.
Il nonno lo ripete sempre, Celestino è uno scansafatiche, dovrebbe pensare al lavoro nei campi, a obbedire, a portare del cibo a casa. Invece, si perde in sogni e illusioni. E questo è il suo affronto più grande: il rifiuto della realtà. Celestino non accetta la brutalità e l’ignoranza del suo ambiente, non lo subisce, ma lo sovverte nell’unico modo che ha – immaginando qualcos’altro. L’intera narrazione si riempie di meravigliose e oscure visioni: spiritelli tra le crepe della sala da pranzo, un coro di cugini morti, lucertole vestite di bianco, una madre che canta nel pozzo. La casa di Celestino è infestata da sogni, incubi e suggestioni che distorcono la realtà. Anche la struttura dell’opera, man mano che ci si addentra tra i miraggi della casa, sembra liquefarsi: le frasi vengono bruscamente interrotte da pagine bianche, citazioni incomprensibili, cori tragici e multipli finali.
Si percepisce un ritmo febbrile, fatto della ripetizione ossessiva di parole come ascia – scritta cento volte solo in una pagina – e bestie, o come era morto, era morto, era morto. Il tempo viene deformato così tanto da scomparire, curvato in un’infanzia che si ripete in eterno. I morti tornano in vita dopo poche righe e le violente punizioni che la famiglia si infligge a vicenda non hanno conseguenze, come un incubo che si ripete. Per il regime comunista il tempo era fondamentale – tutto era proiettato al futuro, ogni cosa in funzione del progresso – e proprio per questo Arenas se ne prende gioco. La stessa follia del suo poema è una burla alla dittatura e al suo materialismo forzato. Celestino prima dell’alba è volutamente alieno al realismo rivoluzionario, piccola ribellione alla concretezza dell’ideologia comunista.
«Il realismo è quanto di meno realistico possa esistere in letteratura. Dacché esso elimina tutto quello che si muove in un essere umano: non solo la sua vita esteriore, ma i suoi misteri, il suo potere di creare, di dubitare, di sognare, di pensare, di vivere incubi».
Fidel Castro, durante il primo congresso nazionale dell’educazione e della cultura del 1971, attaccò con violenza l’opera di Arenas. «La nostra valutazione – affermava – deve essere politica. Non ci può essere un valore estetico contro l’uomo. Non ci può essere valore estetico contro la giustizia, contro il benestare, contro la liberazione, contro la felicità dell’uomo. Non può». Relegata all’estetica, alla frivolezza e alla superfluità, l’opera di Arenas non poteva avere alcun potere contro la missione rivoluzionaria. La bellezza della poesia non aveva posto tra le priorità del partito, non di fronte alla giustizia e alla politica. La gentile prosa di Arenas, musicale e sognante, non era adatta alla denuncia sociale che il partito agognava. Eppure, è stata oggetto di censura, quindi così vuota non doveva essere. Il vero problema di Celestino prima dell’alba non era il suo “non avere letture politiche”, ma il suo averne molteplici.
In una dittatura totalitaria, c’è solo una verità. La relatività è esclusa, e l’ambiguità è un tradimento. Il linguaggio di una dittatura è diretto, semplificato, ridotto all’osso. L’ideologia è monolitica, unitaria, non lascia spazio a interpretazione. Celestino prima dell’alba, invece, è tutto il contrario. Quante altre metafore e allegorie si nascondono nelle visioni di Celestino? Il regime, la vita, l’infanzia, la morte. Addirittura i finali sono multipli, la realtà non è mai unica. Non c’è una verità, non c’è un significato premasticato e risputato nelle bocche dei lettori. Ognuno avrà un’esperienza diversa con questo piccolo libro blu, il suo spirito è mutevole e anarchico, impossibile da imbrigliare – anche da questa recensione. Per Arenas, così deve essere l’opera letteraria, perché così è la vita: senza alcuna spiegazione diretta e univoca. La mentalità monolitica del partito non era in grado di capire la molteplicità e, non trovando nelle opere di Arenas una verità sola, ha stabilito che non ce ne fosse nessuna.
L’uomo ridotto al realismo è una maschera. Viene incasellato in precise categorie: status sociale, gruppo etnico, orientamento sessuale, locazione geografica. Tutto ciò che vive al suo interno è irrilevante, mutilato in favore della comprensibilità. Incredibile ma vero: una favola su un bambino che scrive sugli alberi svela molti più segreti di qualsiasi trattato sociopolitico amato dal regime. Il giovane re di Oscar Wilde ruota attorno alla nozione che i sogni contengano stati di coscienza più veritieri delle ipocrisie di cui gli uomini sono capaci da svegli. Lo spazio onirico, considerato illusorio, in realtà si nutre delle nostre paure, dei nostri pensieri – ma li codifica, li distorce in immagini surreali. Basta “craccare” il codice, comprendere il linguaggio dei sogni, per ritrovarci nevrosi e ansie che non sapevamo di avere. Schiacciate nel subconscio, riemergono solo nella notte.
In Celestino prima dell’alba, le alterazioni di ciò che consideriamo reale – il verosimile – sono in realtà delle rivelazioni. Reinaldo Arenas, così come Wilde, è disinteressato al verosimile, e si avventura per strade inaccessibili al pensiero razionale. Più che con qualsiasi lezione storica, nelle lacrime di Celestino ho sentito la sofferenza del popolo cubano, la fame, la disperazione. Nei colpi d’ascia ho scoperto cosa sia davvero la censura, nella violenza di una famiglia disfunzionale cosa sia una dittatura. E, ancora, ho sentito il peso di una sessualità divergente in un mondo omologato. Celestino viene chiamato “frocio” solo perché scrive poesia – perché essere omosessuale significa stravaganza, trasgressione. Significa non appartenere a nessun luogo, essere diverso. Arenas, anche se avesse voluto vivere una vita tranquilla, non avrebbe potuto, perché la sua sola esistenza era un tradimento del modello rivoluzionario, una ribellione involontaria.
Ma la mia interpretazione è una delle tante. Altri troveranno in Celestino e suo cugino la tenerezza dell’infanzia, il gioco dell’invenzione. Nelle visioni inquietanti della casa scopriranno le crepe della propria famiglia o la disillusione del passaggio all’adolescenza. Troveranno un bisogno d’amore rinnegato, uno soddisfatto, o la ricerca di uno spazio sicuro. È la forma stessa di quest’opera – simbolica e multiforme – a essere una rivoluzione, perché ci costringe a un diverso approccio al testo scritto. Non bisogna capirne la trama o trovare la risposta corretta: bisogna solo sentire qualcosa.