È impossibile che nei loro confronti sia in corso una persecuzione. Se questo tipo di persone esistessero la polizia non avrebbe bisogno di occuparsene perché ci avrebbero già pensato i loro parenti a mandarli là dove non possano più ritornare.
Queste sono state le parole di Alvi Karimov, portavoce del leader ceceno Ramzan Kadyrov, in seguito all’allarme, lanciato dal giornale d’opposizione Novaya Gazeta e da alcune organizzazioni non governative, sul sanguinoso raid che avrebbe portato in Cecenia all’arresto di cento persone e a tre omicidi da parte delle forze dell’ordine. Le motivazioni alla base di questo feroce episodio sarebbero state l’accusa o il sospetto, rivolti ad alcuni cittadini, di “presunta omosessualità”.
Ekaterina Sokirianskaia, direttrice dell’International Crisis Group, ha confermato al giornale The Guardian, non solo l’attendibilità delle notizie trasmesse, ma anche ulteriori informazioni sulla molteplicità di simili episodi nella capitale Grozny e nelle zone limitrofe.
Non si possono detenere e perseguitare persone che semplicemente non esistono nella Repubblica.
La risposta delle autorità, che continuano a negare apertamente le proprie responsabilità, è particolarmente sintomatica ed esplicativa del disprezzo mal celato nei confronti della popolazione LGBT, da decenni vessata e violentata nella repubblica cecena. Le affermazioni di Karimov, in particolare, si inseriscono in una cornice altamente preoccupante, che vede il primeggiare incontrastato di una società ultraconservatrice ed estremamente arretrata, nella quale si arriva, tramite il linguaggio pubblico, a voler disintegrare l’identità dei soggetti omosessuali e l’idea che essi possano esistere e coabitare con la propria famiglia e il proprio popolo.
Una coesione allarmante tra la sfera politica e la cultura locale che non lascia alcuna via di scampo alle sue vittime. La vergogna dei familiari e la persecuzione quotidiana spingono, di fatto, molti ceceni a fuggire dalla propria patria, grazie all’aiuto di alcune organizzazioni per i diritti LGBT.
Ciò che ci colpisce e che ci interroga profondamente non è il puro e semplice atto di perseguitare una minoranza sulla base di un discrimine arbitrario, in questo caso l’orientamento sessuale degli individui, bensì la chiara manifestazione di una pratica di invisibilizzazione della parte lesa. È proprio nell’oscuramento, infatti, che si concretizza il maggior compimento della violenza e del dominio. La scelta mirata di portare il discorso su un piano non facilmente riconoscibile o analizzabile coincide con l’idea di screditare la legittimità dell’autodeterminazione degli individui, ostacolando la tutela della loro pluralità. Tutto ritorna nei territori impervi e inospitali della superstizione e dell’odio, dove le persone non fanno realmente le differenza, ma conta soltanto il rispetto di norme brutali e assoggettanti. Dove si è, appunto, invisibili.
Sarebbe, in questo caso, estremamente ingenuo provare stupore dinanzi a episodi del genere. Ciò che è possibile fare, invece, è dare voce a riflessioni prolifiche e lottare affinché il dialogo transnazionale non tuteli esclusivamente i nostri conterranei, ma si estenda anche alle popolazioni – o a parti di esse – che richiedono il nostro intervento. La comunità mondiale non può e non deve in alcun modo rimanere in silenzio dinanzi a queste aberranti violazioni dei diritti umani, a causa delle quali non viene messa in discussione soltanto la libertà dei soggetti di riferimento, ma anche – e spaventosamente – il loro stesso diritto di esistere.