Non basta certo un film, ma C’è ancora domani è sicuramente un ottimo simbolo e promemoria in vista del 25 novembre, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Si tratta dell’esordio dietro la macchina da presa dell’attrice Paola Cortellesi, qui anche protagonista, e la pellicola, in sala nei cinema italiani, sta già facendo un bel po’ di rumore.
Un’artista, la Cortellesi, senza dubbio geniale, la quale, pur se interprete di un gran numero di commedie spesso d’intrattenimento, è stata capace di distinguersi nel panorama cinematografico nostrano. Ha infatti vinto svariati premi, tra tutti, il David di Donatello per migliore attrice protagonista nel film Nessuno mi può giudicare (2011).
Anche qui, presentato alla diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma, in concorso nella categoria Progressive Cinema – Visioni per il mondo di domani, il film ha ottenuto due riconoscimenti, tra cui il Premio speciale della giuria e una menzione speciale come migliore opera prima. Mica male, diremmo, come esordio. Vediamo, dunque, cos’è C’è ancora domani e cosa aspettarsi.
Siamo a Roma durante il secondo dopoguerra. Protagonista delle vicende è Delia Santucci, donna forte ma allo stesso tempo vittima delle angherie del marito violento e ultraconservatore, Ivano, da cui ha avuto tre figli. In tale asfissiante contesto quotidiano, fa da cornice un paese diviso tra i cambiamenti politici a seguito della Liberazione e le conseguenze catastrofiche della guerra.
Per i Santucci, intanto, è tempo di novità: si festeggia il fidanzamento ufficiale tra la primogenita, Marcella (Romana Maggiora Vergano), e Giulio (Francesco Centorame), rampollo di una famiglia benestante. Ma le cose non andranno proprio per il verso giusto. Tuttavia, qualcosa esplode in Delia ed è finalmente motivata a reagire.
A saltare all’occhio è la scelta coraggiosa del filtro in bianco e nero, a detta di molti pretenziosa poiché di rimando alle straordinarie e suggestive pellicole neorealiste. Trovo che, più che un confronto (senza dubbio impossibile, lo sappiamo che non è Roma città aperta), le intenzioni della Cortellesi siano state in termini di omaggio e questa cosa non può che farle onore, trattandosi comunque di un film ambientato negli anni Quaranta. Lei stessa ha inoltre ammesso che quando immaginava i racconti dei suoi parenti, li visualizzava proprio in bianco e nero.
Altra scelta molto accattivante e che non vediamo spesso nei film italiani, è quella di utilizzare il rapporto 4:3, formato quadrato del classico cinema diciamo più agé, adottato dopo l’avvento del sonoro e oggi (parliamo sempre di prodotti stranieri) di nuovo in voga.
Tali espedienti descrivono pellicole di nicchia, eppure questa è destinata a un grande pubblico, il che la rende ancor più interessante e coraggiosa. Soprattutto se si conta che a circa tre settimane dalla sua uscita in sala ha già incassato oltre quattordici milioni di euro al botteghino, diventando il film italiano con il più alto incasso degli ultimi tre anni e superando anche Il grande giorno di Aldo, Giovanni e Giacomo. Non è tutto.
Le ultime notizie ci informano che C’è ancora domani è stato venduto in sedici paesi, quali Spagna, Portogallo, Svizzera, Danimarca, Norvegia, Finlandia, Grecia, Australia, Benelux, Svezia, Brasile, Ungheria, Taiwan, Bulgaria, Israele e Francia. Un successo più che soddisfacente.
Il punto è che la Cortellesi sa bene il fatto suo, gestendo e interpretando una pellicola con tematiche femministe molto forti e (purtroppo) all’ordine del giorno, argomento che a molti (purtroppo di nuovo) sembra stare ancora scomodo. Quindi decide di ibridare il suo film tra dramma e commedia, utilizzando la battuta costante – sempre contestualizzata – come vettore di umorismo amaro, di riflessione. Talvolta, magari, può sfociare un tantino nel semplicistico ma ha perfettamente senso se il suo target è il vasto pubblico. E che sia il più vasto possibile, a questo punto.
Delia è una donna buona, repressa e succube di un marito che non la rispetta e la picchia un giorno sì e l’altro pure. Sente di non avere più molte chance. Per sua figlia, però, c’è ancora tempo di vivere una vita migliore. Gli occhi della Cortellesi martellano sullo schermo tutto il tempo, magnetici, nudi, il suo volto in primissimo piano è un’arma potentissima. Per chi come me la segue dai tempi di Magica Trippy a Mai Dire Gol, vederla adesso, troneggiare nel panorama cinematografico italiano con soltanto un’opera prima, è una goduria senza pari.
Al suo fianco un eccezionale Valerio Mastandrea nei panni del terribile Ivano, grezzo e meschino. Come suo padre, che vive con loro (Giorgio Colangeli). Emanuela Fanelli siamo abituati a vederla in ruoli comici e qui è riuscita a contestualizzare bene questa sua verve, interpretando una donna, amica di Delia, la cui condizione è decisamente migliore. È “fortunata”, ha un marito affettuoso e rispettoso ma è anche consapevole di essere un’eccezione e di poter fare ben poco per cambiare le cose.
La presenza del buon marito della Fanelli (Raffaele Vannoli), come anche quella di Nino (Vinicio Marchioni) o del soldato afroamericano (Yonv Joseph) è la furbata di cui essenzialmente i film femministi hanno bisogno per essere legittimati da quegli uomini che, invece di indignarsi per tutto il marcio che hanno subito (e spesso continuano a subire) le donne, sentono la necessità di spostare nuovamente l’attenzione su di loro affermando l’iconico non tutti gli uomini (#notallmen). Una frase, anche se inutile, che posso comprendere ed è per questo che il film contrappone più tipologie di uomini, pochi quelli positivi ma almeno ci sono. Perché un film femminista, se questa cosa non fosse ancora chiara, parla agli uomini.
Le scene stile musical sono poetiche e inquietanti al tempo stesso, stilisticamente ben rese, assieme all’interessante uso della colonna sonora, sia originale (Lele Marchitelli come compositore) che con brani moderni, da Concato agli OutKast, che non hanno nulla a che vedere con l’epoca del film ma si adattano perfettamente a ogni scena. Per non parlare del finale, inaspettato, sorprendente, con una grandissima A bocca chiusa di Daniele Silvestri. Un momento che strappa davvero le lacrime dagli occhi, per la rabbia, per la gioia.
C’è ancora domani è un prodotto diverso nel panorama italiano senza però stravolgere troppo ciò a cui il pubblico medio è abituato. Mette in scena l’assurda condizione delle donne dell’epoca, un’epoca travagliata dove si contrapponevano la povertà e la fortuna (ottenuta tramite loschi affari della Seconda guerra mondiale) dei cosiddetti arricchiti, nel mezzo del forte desiderio di cambiamento politico (il referendum istituzionale e l’elezione dell’Assemblea Costituente). Il desiderio delle donne di poter finalmente votare. Le varie modalità di repressione e violenza sulla donne, fisica e psicologica, allora considerate nella norma. L’assurda consapevolezza che, per quanti traguardi siano stati raggiunti, ciò che vediamo non è così lontano dai giorni nostri.
C’è ancora domani ci fa ridere, certo. E allora ridiamo. Ridiamo in faccia ai taci, ai prende più di te perché è uomo, ai stai al tuo posto, ai l’hai provocato, ai tu sei mia, ai non puoi. E poi ridiamo ancora in faccia a Giulia Cecchettin, alle botte, agli stupri, ai femminicidi, a tutti quelli che sembravano sempre, sempre, dei bravi ragazzi.