«È un cauterio. Lo vedi? Quando lo scaldi nel fuoco, cambia colore, può diventare cenerino, rosso ciliegia, rosso scuro, e serve a curare. È in grado di isolare le infezioni ustionando i tessuti intorno. Ti aiuterà a purificare ciò che avrai bisogno di salvare».
Succede che un giorno ci si sveglia e la propria vita è finita, tutto è da rifare. A partire da una rottura, passando per la partenza verso orizzonti ignoti, si innesca un dispositivo che trascina chi legge nella voragine di un romanzo che indaga, da una prospettiva di genere, la fuga dal dolore come forma di resistenza rispetto alle strutture sociali e ai ruoli che da esse derivano dal punto di vista, però, di protagoniste che non fuggono.
Da un lato, un personaggio senza nome che – alla maniera dell’argentino Patricio Pron – chiameremo Lei. È il 2014, estate, notte fonda, gli amici sono andati via. Lui la chiama, chiedendole di raggiungerlo sul divano. Lei si siede, per ascoltare parole che sfumano nell’indistinto. Tra queste, «non funziona». Si ritrova sola, arrabbiata, invisibile e vuota a sperare nel mare, affinché sommerga tutto. Così si trasferisce, ma non per ricominciare.
Dall’altro, Deborah Moody, la prima donna a fondare una colonia che, alla scomparsa del marito, si ritrova senza soldi con l’unica possibilità di attraversare quel mare per affidare alle onde e a una terra sconosciuta la speranza di ricostruirsi un futuro migliore, animata da idee di rivalsa e indipendenza, ma che si ritrova a raccontare il suo passato dalle profondità del terreno in cui è stata sepolta in posizione verticale, destino che spettava ai corpi maledetti.
Cauterio, edito Alter Ego con traduzione di Sara Papini – il cui titolo prende il nome da uno strumento chirurgico utilizzato in passato per isolare i tessuti infetti, sottoponendoli alle alte temperature della fiamma incandescente – segna la scoperta in Italia di Lucía Ljtmaer, una voce letteraria che con queste pagine si propone una sfida audace quanto rischiosa: intrecciare i percorsi di vita delle due donne, nella cornice di due città e due epoche storiche differenti.
La Salem del XVII secolo, dove dimoravano pescatori, mercanti e timorati di Dio, e la Barcellona contemporanea che in comune con la cittadina del Massachusetts ha il mare, le strade strette e il cielo bugiardo; una in cui risuona l’eco di infervoranti sermoni predicanti disciplina e duro lavoro; l’altra intrisa dell’ostentazione di vite che pretendono di essere perfettamente ritagliate.
Lo sfacelo è dovunque, la disarmonia universale. […] Persone infrante, cose infrante, pensieri infranti. La città intera è un ammasso di rifiuti. Così scrive Auster nel suo Città di vetro.
Con pochi elementi, quasi come si avvalesse di – per dirla con Carpentier – scenografie già fatte, Lijtmaer rispolvera l’anatomia di due città-prigioni, le quali cessano di essere un mero sfondo, al contrario incorrono in un processo di simbiosi, amalgama e trasmutazioni (Carpentier) di pari passo alle storie delle due protagoniste. E in quello che sembrerebbe un esercizio letterario che conduce alla personificazione di uno spazio, per mezzo di tecniche narrative che ricollocherebbero l’autrice argentina nel quadro più ampio della tradizione letteraria da cui proviene, viene a delinearsi il volto di una società nevrotica, che funziona come un incastro di ruoli sociali e percorsi tracciati dai concetti di cui riempie le menti di coloro che la abitano, condannando qualsiasi forma di deviazione con l’esclusione e la repressione; relegando l’esperienza del dolore nelle prigioni del silenzio e della solitudine.
Un procedere vorticoso, talvolta alienante e ripetitivo, scandisce la narrazione il cui tempo si alterna tra il “prima” e l’“adesso” e cinge in una morsa soffocante i ricordi di una vita che è già stata, dei progetti di una famiglia e una brillante carriera, le serate passate nei bar del quartiere gotico con le amiche a parlare d’amore e futuro, per poi vedere quei progetti miseramente naufragare e il cielo grigio della Londra del 1600, simile al colore perlato del vestito da sposa di una ragazza di appena vent’anni che convola a nozze con un uomo d’affari: prima il sesso, poi l’assenza, una gravidanza finita male e la testa china al suo passaggio fino a diventare parte dell’arredamento. E l’anima che si inacidisce e si consuma.
Due corpi imbrigliati nel massacrante tentativo di incarnare ideali di bellezza: Tanti anni passati a misurarmi in maniera ossessiva i fianchi, quei cumuli di grasso che si depositavano, uno sopra l’altro, sul mio addome, me li sarei strappati via se solo fosse stato possibile. Corpi silenziosi, che devono stare al proprio posto: Io la padrona di casa, lui si aspettava un ordine naturale della nostra vita in comune, una vita organizzata.
Il decadimento – e questo è un aspetto fondamentale – è narrato in prima persona: Lei che annega tra pensieri di distruzione di massa e l’odore dei tranquillanti, mentre contempla placida la sua caduta tra le pareti di un appartamento di Madrid. Deborah, che si perde in un feroce dialogo con Dio, che non ha perdonato i suoi tentativi di divincolarsi dal timore della sua punizione, per essere lei la sola artefice del suo destino. Su ogni centimetro della loro pelle, le promesse false dell’amore e della fede, la menzogna che sarebbero state sufficienti a salvarle.
Unite da un gioco di incastri che riduce il divario spazio temporale tra le due, si rivela la stratificazione complessa su cui si costruisce il romanzo, in cui si coniugano i percorsi individuali di Lei e Deborah Moody al contesto sociale in cui esse vivono, che nasconde rigide divisioni di classe e di genere, per intrecciarsi con quelli delle altre donne che abitano Cauterio, insieme risucchiate in tale circolo vizioso. Come faceva notare Mercè Rodoreda – una penna a cui sembra l’autrice si ispiri – quando ci sono tali divisioni, non può esistere sorellanza.
O forse sì, ma il concetto di sorellanza ha subito nel corso del tempo un’ampia mistificazione. «Esiste una sorellanza implicita e una sorellanza esplicita», dichiara l’autrice in un’intervista per El Diario, «è un qualcosa in cui cerchiamo di impegnarci tutte, ma per cui non rischieremmo tutto». E attraverso lo sguardo delle sue protagoniste svela l’ipocrisia delle relazioni amicali, che si muovono in spazi ristretti e avvelenati dalle aspettative sociali da un lato; la facilità con cui si tradiscono progetti condivisi, ingannate da falsi profeti che predicano solo un’altra forma di sottomissione, dall’altro.
In quello che sembrerebbe un vorticoso succedersi di inesorabili cadute, con profonda empatia e attraverso una prosa che ha dato prova di grande maturità, Lucía Lijtmaer descrive con delicatezza i percorsi di donne vaganti in un mondo che sembra non essere mai appartenuto loro, e i propri corpi, campi di battaglia stremati all’osso fuggono sotto cieli e per mari sconosciuti, scompaiono o si ritrovano a essere massacrati, talvolta rinnegati.
Ma sono le loro parole a essere inafferrabili: esse restituiscono discorsi carichi di senso, vulnerabili e crude, si caricano del peso di tutti quei silenzi trattenuti e tra queste pagine collassano, trasformando il romanzo in uno spazio in cui confluiscono storie mai raccontate e «ogni spazio di discussione e conversazione, da cui emergono esperienze mai raccontate è necessariamente politico» (Lijtmaer).
Come un cauterio bruciante della fiamma incandescente di una penna che si propone di isolare, senza difese, la pervasività delle retoriche che creano esempi e generano mostri, per poi tracciare, a partire dalle cicatrici, nuovi percorsi che conducono chi legge verso un finale aperto, tra le macerie di ciò che si può ancora salvare, nella prospettiva di quanto si può ancora costruire.
Contributo a cura di Claudia Putzu