L’incipit di Cattive acque (Dark waters, in originale) ricorda terribilmente Lo squalo: è il 1975 – stesso anno del cult di Spielberg! –, tre ragazzi si avventurano di notte su un lago vicino Parkersburg, in West Virginia, e due di loro fanno il bagno nudi. La macchina da presa li inquadra minacciosamente sott’acqua, dal basso, e lì lo spettatore cinefilo non può fare a meno di aspettarsi le inquietanti due note del famoso tema musicale di John Williams e vedere l’inquadratura avvicinarsi sempre più alle vittime che verranno divorate dal più grande predatore dei mari. Stavolta però non si tratta di uno squalo bianco, bensì di qualcosa di molto più letale: arriverà infatti una barca a sversare clandestinamente sostanze tossiche. Todd Haynes utilizza dunque le armi del cinema del terrore per introdurci a un argomento che dovrebbe impaurirci molto più di qualunque mostro degli abissi: l’utilizzo e lo smaltimento di sostanze chimiche sintetizzate dall’uomo che sono altamente tossiche per le persone e provocano patologie letali quali tumori ai reni, alla prostata e ai testicoli, disfunzionalità della tiroide, dell’equilibrio ormonale e dell’utero, nonché infertilità e malformazioni nei neonati. Robetta non da poco.
Tutto nasce, storia verissima, quando l’allevatore Wilbur Tennant – interpretato dal bravissimo Bill Camp –, della suddetta Parkersburg, nel 1998 si rivolge all’avvocato Robert Bilott, originario proprio di lì, per denunciare l’avvelenamento delle acque presso cui si abbeverano i suoi animali che stanno morendo a una velocità impressionante. Bilott appartiene a uno studio legale che, guarda caso, difende le grandi corporation del campo chimico, in particolare la DuPont che detiene uno stabilimento proprio in quel di Parkersburg. Inizialmente, il nostro Bob – interpretato da Mark Ruffalo, ambientalista convinto che ha fortemente voluto il progetto arrivando a produrlo lui stesso – è reticente a prestare ascolto a un bifolco del Midwest che viene a portargli uno scatolone di videocassette VHS. Ma proprio quei nastri magnetici contengono delle verità agghiaccianti: Tennant ha, infatti, documentato i terribili sintomi che hanno decimato le vacche e gli altri animali della sua terra.
Anche qui Haynes utilizza efficacemente gli stilemi del cinema di genere, in particolare il found footage, ovvero il ritrovamento di riprese amatoriali che, se nei film horror documentano di giovani ragazzi trucidati da streghe – si veda Blair Witch Project (1999) come capostipite – o altre creature soprannaturali, qui invece rendono conto di animali con occhi rientrati nelle orbite e organi interni gonfi e incistati.
Rispettando la formula classica del viaggio dell’eroe – teorizzata dall’antropologo Joseph Campbell su studi junghiani prima e dallo sceneggiatore Chris Vogler dopo –, in un primo momento Bob rifiuta la chiamata all’avventura, che in questo caso consiste nell’ascoltare le richieste del povero Tennant. Un ritorno nel suo paese d’origine, però, gli farà presto cambiare idea. Non si tratta solo delle condizioni degli animali: un giro veloce a Parkersburg farà rendere conto al protagonista e a noi spettatori che la vita dell’intera comunità è dominata dalla presenza della DuPont che ha installato scuole, circoli e altri servizi, penetrando surrettiziamente nel tessuto sociale in modo da tenere buoni gli stessi abitanti a cui fornisce lavoro ma anche veleno. Quegli stessi abitanti sorridono inconsapevoli dal ciglio della strada all’auto di Bob che sta passando e anche a noi che li vediamo dalla sua vettura. Alcuni di quei sorrisi, però, sono neri perché i PFAS, ovvero le sostanze perfluoroalchiliche immesse nell’ambiente dalla DuPont, tra le altre cose danneggiano anche i denti.
Da qui Bilott comincerà una coraggiosa ed estenuante battaglia contro il colosso chimico, mettendosi in una posizione scomoda all’interno del suo stesso studio legale che, come si diceva, difende la compagnia. La lotta di Bob durerà moltissimi anni e tuttora non è ancora conclusa: proprio nel 2017, il noto avvocato è stato invitato in Italia da un coordinamento di mamme del Veneto che ha denunciato la presenza del PFAS nelle falde acquifere di Montagnana, in provincia di Padova, a causa di un’azienda tessile italiana che a partire dagli anni Sessanta ha utilizzato queste sostanze per ricerche su svariati materiali in una sconvolgente analogia con quanto raccontato nel film di Haynes. Già, perché – ed è questa la cosa più inquietante – il C8 (così viene chiamata in gergo la sostanza di 8 atomi di carbonio sintetizzata dagli scienziati e poi unita al fluoro) viene comunemente impiegato nella produzione del Teflon che riveste le padelle antiaderenti che tutti usiamo quotidianamente nonché una miriade di tessuti impermeabili che fanno parte del nostro orizzonte quotidiano.
È quando l’indagine di Bilott si allarga all’utilizzo capillare del C8 nelle industrie tessili, dunque, che lo spettatore comincia a rendersi conto della portata del suo lavoro e delle terribili implicazioni. La pellicola di Haynes, nella migliore tradizione del cinema di impegno civile statunitense, ci porta progressivamente all’acquisizione di tali verità, seguendo Bob in un percorso di consapevolezza sempre maggiore che va di pari passo con la sua coscienza, di volta in volta più sconvolta da ciò che scopre. L’avvocato metterà a repentaglio la sicurezza economica della sua famiglia per intraprendere questa battaglia e, in particolare, quando esporrà i fatti alla sbigottita moglie Sarah – interpretata da un’efficace Anne Hathaway –, quella sarà l’occasione anche per chi guarda il film di apprendere il vero significato delle sue indagini.
L’esposizione dei fatti funziona terribilmente bene perché Haynes non si affida alle sole parole di Bob ma, tramite un raffinato montaggio alternato, ci mostra vari momenti delle ricerche dell’avvocato mescolati temporalmente, ma il cui senso viene chiarificato dalle parole del legale, in questo modo i vari tasselli, fino a quel momento oscuri, troveranno finalmente un loro posto anche nella mente di chi sta guardando. Ci identifichiamo così con Sarah e con chi vive vicino a Bob e vuol capire perché egli sta ossessivamente consegnando la propria vita a una simile causa.
Il tema dell’individuo vs grandi corporazioni e istituzioni non è nuovo al cinema ed è stato affrontato in molte pellicole di grande valore, sia cinematografico che civile, come in Michael Clayton (2007) – anche lì si parlava di sversamenti nelle acque, bene preziosissimo e sempre più scarso –, di Tony Gilroy con George Clooney o, soprattutto, nel bellissimo Insider (1999) di Michael Mann in cui il biochimico John Wigand/Russell Crowe, coadiuvato dal giornalista televisivo Lowell Bergman/Al Pacino, si scagliava contro le industrie del tabacco, oppure ancora nel poco ricordato The rainmaker (1997) di Coppola in cui il giovane avvocato Matt Damon combatteva contro una grossa compagnia di assicurazioni. Una scia di film che ci riconduce al capolavoro di Alan Pakula Tutti gli uomini del Presidente (1976), in cui si rendeva conto dell’indagine dei giornalisti Woodward e Bernstein che, negli anni Settanta, portò all’empeachment di Nixon.
Non è un caso che una scena di Dark waters – francamente preferiamo il titolo originale – richiami terribilmente il classico di Pakula: il nostro Bilott è letteralmente sommerso da scatoloni di reperti e analisi chimiche che arrivano dagli archivi DuPont. Esaminare il materiale sarà impresa immensa e impervia, ma Bob non si darà per vinto e ne comincerà la lettura e la catalogazione. La macchina da presa, con un’inquadratura dall’alto, si allontana progressivamente dal protagonista senza movimenti ma con delle semplici dissolvenze incrociate, passando così, morbidamente, da un totale fino a un campo lunghissimo che ci mostra Mark Ruffalo/Bilott schiacciato all’interno di una fitta rete di insabbiamenti e connivenze più grandi di lui. Il richiamo visivo corre direttamente alla scena in cui Redford/Woodward e Hoffman/Bernstein studiano documenti importanti all’interno della biblioteca del Congresso alla ricerca dei fili che legano i finanziamenti in nero e l’effrazione al Watergate al Presidente degli Stati Uniti. Anche lì la macchina da presa, posta dall’alto – a piombo sui due protagonisti – si allontanava progressivamente, tramite piccole dissolvenze incrociate, fino a inquadrare i due giornalisti al centro di una figura composta di vari cerchi concentrici divenuta poi iconica del film di Pakula, ma anche emblematica per tutti coloro che sono alla spasmodica e tenace ricerca della verità.
Il film trova espressione attoriale nella dolente interpretazione di Mark Ruffalo, che i più ricorderanno come incarnazione di Hulk nei film degli Avengers, ma che in realtà è un attore versatile che ha attraversato, più o meno sotterraneamente, la cinematografia americana degli ultimi vent’anni, dal thriller In the cut (2003) di Jane Campion al cult Eternal sunshine of the spotless mind (titolo originale di Se mi lasci ti cancello del 2004), passando per il bellissimo noir metropolitano Collateral (2004) di Michael Mann fino al delicato Tutto può cambiare (2013) di John Carney. A noi piace ricordarlo soprattutto nei panni del detective Toschi nell’incredibile film, tratto da una storia vera, di detection poliziesca Zodiac (2007) di David Fincher. In Dark waters si avverte che l’attore teneva molto al progetto e infatti ce la mette tutta, ma gli manca il carisma di un Pacino e di un George Clooney.
Il cast è inoltre arricchito dalla presenza dell’altissimo – in confronto a Ruffalo – Tim Robbins, sempre sensibile quando si tratta di cause civili, e di un invecchiato nonché brillante Bill Pullman, il Presidente americano di Indipendence day (1996) ma anche l’antieroe lynchano di Strade perdute (1997).
Todd Haynes, che aveva firmato bellissimi e intensi melodrammi come Lontano dal paradiso (2002) e Carol (2015), ci stupisce con questo alto esempio di cinema civile costruito in maniera impeccabile e terribilmente coinvolgente. Anche quando deve rendere conto di noiose spiegazioni chimiche, lo fa con dei dialoghi comunque creati ad arte per intrigare e incuriosire.
Va detto però che non tutto funziona nella sceneggiatura di Mario Correa e Matthew Michael Carnahan: il personaggio della nonna di Bob scompare frettolosamente e qualche passaggio temporale in più si poteva evitare per asciugare la narrazione. Inoltre, una scena in cui Bilott teme che l’accensione della sua auto possa far esplodere una bomba, risulta stonata rispetto al resto del film, come a voler cercare l’effetto facile. Non mancano neanche degli schematismi nella presentazione di alcuni personaggi. Questi elementi giocano dunque a sfavore del coinvolgimento emotivo.
La ripresa in soggettiva dall’auto di Bob con cui il regista aveva esplorato la piccola comunità sorridente di Parkersburg, ritorna in un gioco circolare, nella parte centrale e infine finale del film a mostrarci quegli stessi abitanti che ora guardano torvi e ostili verso l’avvocato perché le sue cause legali hanno messo in difficoltà la DuPont, che in quel paese forniva lavoro e servizi.
L’utilizzo della fotografia è notevole e significativo, con una predominanza di colori freddi e bluastri nelle scene ambientate in West Virginia, dove l’avvelenamento di persone e animali è diventato ormai una terribile realtà che raggela le vite di tutti, e interni con melliflui colori dorati che caratterizzano sia le lussuose feste organizzate dalle aziende chimiche che gli studi degli avvocati. Il contrasto visivo è palese e non ha certo bisogno di ulteriori spiegazioni. Questo solo per sottolineare come un cineasta raffinato, coadiuvato in questo caso dal direttore della fotografia Edward Lachman, sappia utilizzare i mezzi a sua disposizione nella produzione di un senso che va oltre la mera superficie delle immagini.
Nonostante Dark waters non rappresenti l’apice del cinema di impegno civile americano, Haynes dimostra comunque di saper mettere in atto tutti gli strumenti del caso per rendere conto della vicenda umana e politica di Bob Bilott in un genere apparentemente lontano dai suoi registri narrativi consueti ma che, in realtà, nei conflitti interiori del protagonista schiacciato tra i suoi doveri verso la famiglia e i suoi datori di lavoro da un lato e la sua coscienza dall’altro, richiama quelle lacerazioni dell’anima che ne hanno sempre caratterizzato i personaggi. La visionarietà più estrema di titoli come Velvet Goldmine (1998) e Io non sono qui (2007), in cui Bob Dylan veniva incarnato da sette attori diversi, invece, viene messa da parte per rivivere solo in minor misura, nell’utilizzo creativo della fotografia e nei guizzi di una messa in scena mai banale che ricostruisce efficacemente una vicenda purtroppo reale e, proprio per questo, inquietantemente drammatica. Siamo certi che, dopo la visione del film, nessuno guarderà più alle padelle di casa con lo stesso sguardo distratto di una volta.