È il 16 marzo del 1978, quarantatré anni fa. In via Fani, a Roma, una Fiat 128 sulla quale viaggiano alcuni componenti delle Brigate Rosse taglia la strada all’auto di Aldo Moro. Nell’attentato che segue, il leader della Democrazia Cristiana viene rapito e gli uomini della sua scorta brutalmente uccisi. La prigionia di Moro dura ben 55 giorni, poi, il cadavere del politico viene fatto rinvenire nel portabagagli della Renault 4 rossa di cui tutti ricordano la drammatica fotografia.
Durante quei quasi due mesi di detenzione, centinaia, migliaia di segnalazioni di avvistamento giungono alle procure di tutta Italia. Il Paese vive un’angoscia mai provata prima. Una soffiata, però, non è come tutte le altre, non fosse che a passare le informazioni relative al covo in cui Moro sarebbe tenuto in ostaggio è un gruppo di professori universitari che, da lì a poco, avrebbe determinato la vita politica italiana sedendo alle cariche più autorevoli dello Stato. Tra questi c’è anche Romano Prodi.
Ciò che colpisce, però, è la provenienza mistica di quei dettagli. Gli accademici, infatti, fanno riferimento a una seduta spiritica intrapresa per gioco in una villa nel paesino di Zappolino, in compagnia dei fantasmi di don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira, due colonne portanti della Democrazia Cristiana. Attraverso l’espediente del piattino che fluttua verso le lettere disposte su un tavolo, fino a formare parole di senso compiuto, gli spiriti comunicano con i professori e compongono le parole Gradoli, Viterbo, Bolsena.
Antonio Iovane, giornalista e scrittore, racconta La seduta spiritica (minimum fax) in un libro che è un mix di fiction e ricostruzione fedele degli avvenimenti. L’autore dialoga con gli intellettuali del tempo, Leonardo Sciascia e Italo Calvino, duetta con loro cercando la soluzione più probabile a quello che è ancora uno degli enigmi più incredibili della storia d’Italia, dunque analizza le fonti, riscopre le lettere che il leader della DC scriveva durante i giorni di prigionia. Infine, formula la propria ipotesi dei fatti accaduti in quel casale fuori Bologna.
Il testo di Iovane è un giallo senza soluzione, uno stimolo alla riflessione che si insinua nella mente del lettore con i molteplici interrogativi da cui quest’ultimo viene travolto. Le cose sono quasi sempre semplici, scrive il giornalista, attribuendo la paternità della frase a Leonardo Sciascia. Ma è davvero così per ciò che riguarda il caso Aldo Moro? Lo abbiamo intervistato.
Antonio Iovane, La seduta spiritica si apre e, quasi, si chiude con un dibattito tra intellettuali oggi inimmaginabile. Perché gli scrittori (Sciascia, Calvino, Pasolini) erano attratti, e lo sono ancora a quanto il tuo libro dimostra, dal caso Aldo Moro?
«Innanzitutto, c’è da considerare il ruolo degli intellettuali a quei tempi, anni di grande impegno. Esistevano diverse figure di intellettuale: di tipo organico, militante, oppure l’intellettuale puro e libero da influenze, indipendente. Agli scrittori e al loro pensiero si attribuiva un grande peso, così come agli scienziati, insomma, a coloro che – a dirla con Sartre – abusavano della fama acquisita in altre maniere per esternare opinioni sul mondo e sulla realtà. Quello era il loro ruolo. Calvino, Sciascia, Moravia in quell’epoca esprimevano giudizi su un mondo che prescindeva dall’oggetto del loro mestiere, il mestiere di raccontare storie. Allora era normale che gli scrittori esprimessero delle opinioni da cui nascevano dei dibattiti ospitati, poi, dagli organi d’informazione e dai grandi giornali come il Corriere della Sera. Oggi, a esprimere opinioni sulla realtà non sono più gli intellettuali e gli scrittori, a cui non viene dato molto peso, ma si offre più attenzione ai giudizi di altre categorie che poco hanno a che fare coi campi del sapere. Questo, però, è un discorso diverso. Il caso Moro è un campo di forze in cui il dibattito viene, in un certo senso, facile perché rappresenta una grande ferita al cuore dell’Italia e un pezzo di storia su cui molti si dividono, come si dividevano sul peso e sul ruolo della lotta armata e sul ruolo dell’Italia democratica in quegli anni. Con quali occhi guardare al rapimento di Moro, alle BR e anche allo Stato, era il tema di un confronto naturale».
A proposito di questo, gli intellettuali di una volta erano al servizio della politica, della giustizia o anche dei movimenti rivoluzionari che tentavano di stabilire un nuovo ordine delle cose. Erano migliori di quelli di oggi? Oppure perché, secondo te, questi non prendono più parte alla vita politico-sociale del Paese?
«Dal mio punto di vista c’è stata una diseducazione del pubblico all’ascolto delle grandi voci degli intellettuali. Viviamo in un’epoca in cui conta solo marginalmente aver studiato, essersi fatto le ossa in un campo della cultura e ciò che risulta centrale è semplicemente mostrarsi e avere successo. E il successo è rimasto quello di cui parlava Gaber negli anni ’90: oggi coincide totalmente con la popolarità. L’importante è essere famosi, conosciuti, non il motivo. Uno scrittore non si trova a suo agio in un mondo del genere, spesso non possiede neppure gli strumenti comunicativi di chi fa spettacolo. Ed ecco che restano poche alternative alla torre d’avorio, salvo eccezioni che cercano comunque di farsi largo con la forza delle proprie opinioni. Secondo me questo è un atteggiamento giusto, bisogna comunque cercare di far sentire la propria voce e orientare il pubblico, dare degli strumenti a chi ci ascolta per comprendere una fetta di realtà. Perché è questo che fanno gli intellettuali, che facevano allora e oggi non più. Poi, certo, a quei tempi molti aderivano ai partiti, in particolar modo al Partito Comunista, ma non mancavano dei pensatori liberi come Sciascia che, anche se eletto nelle liste del PCI e successivamente nei Radicali, era indipendente. Certo, nel ruolo dello scrittore aveva acquisito un credito immenso e, quindi, se lo poteva anche permettere. Però – se ricordi – questa cosa la pagò quando scrisse un libro inviso al Partito Comunista, Il contesto. Ma un intellettuale è giusto che non guardi a queste cose e vada avanti».
Il 16 marzo del 1978 (giorno dell’attentato di via Fani) non avevi ancora compiuto quattro anni. Come mai ti sei incuriosito al caso Aldo Moro fino a scriverci un libro?
«A mio parere, il fenomeno Brigate Rosse non è mai stato affrontato e analizzato da un punto di vista narrativo dal suo inizio alla fine. E un fenomeno che non viene colto dal principio al suo sviluppo, fino alla disgregazione, non si può comprendere. Il lavoro storico è cercare di far capire cosa è accaduto partendo dall’origine e disegnando l’intera parabola, mentre la maggior parte della letteratura sulle BR tende a cristallizzare l’attività brigatista in pochi episodi cardine come, appunto, può essere il caso Moro. Ma se a un ragazzo raccontiamo che le Brigate Rosse sono state esclusivamente quelle del rapimento Moro, riportiamo solo una parte della storia. Due anni fa ho scritto Il brigatista (minimum fax) perché ho intercettato quel vuoto e ho voluto provare a colmarlo. Mi appassionava la storia della lotta armata, anche perché un po’ l’ho attraversata anch’io. Il prof. Ezio Tarantelli, ucciso dalle BR, era un caro amico di mio padre. Ricordo, il giorno in cui fu assassinato, il clima che si respirava in casa mia e in generale in Italia. Questa vicenda mi ha scavato dentro dal punto di vista personale, e quando ho deciso di scriverne ho coniugato tale esigenza con il vuoto narrativo che sentivo forte».
Attribuisci a Sciascia una frase: Le cose sono quasi sempre semplici. È davvero così?
«Questa è una frase che io attribuisco a Sciascia ma che mi diceva sempre mio nonno Gennaro, che era un fervente cattolico e, dunque, vedeva le cose ultime in maniera più semplice di come possono vederle, spesso, i laici. Mi ha sempre affascinato questa frase e non escludo che anche Sciascia possa averla adoperata in qualche suo libro. Gli scrittori non danno soluzioni, gli scrittori fanno domande, come appunto ha fatto Sciascia. Immaginare che possa aver pronunciato una frase del genere è molto evocativa del personaggio ma anche dello scrittore in generale».
Il tuo libro è un misto di non-fiction – con la ricostruzione del caso – e di narrativa, una sorta di giallo senza soluzione. Il punto è questo: la soluzione non è stata trovata o le parti in causa hanno fatto sì che non la si trovasse?
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«Entrambe le cose. Per certi versi, il fatto che non si sia mai arrivati alla soluzione mi ha consentito di scrivere un libro sulla carta più affascinante. Paradossalmente, se durante le mie indagini uno dei partecipanti alla seduta spiritica mi avesse rivelato “ci siamo inventati tutto, abbiamo ricevuto la soffiata da tizio o caio” il mio testo sarebbe risultato meno interessante di come si presenta nella versione attuale».
Beh, avresti svelato una cosa mica da poco…
«Avrei avuto uno scoop giornalistico, ma dal punto di vista narrativo il mio scritto ne sarebbe uscito molto indebolito. E dal momento in cui faccio il giornalista per mestiere ma scrivo libri in chiave narrativa, sono contento che le cose siano andate così».
Hai provato a contattare qualche partecipante a quella seduta spiritica?
«Ovviamente sì, ma sono chiusi nel silenzio come da decenni e di quella vicenda parlano mal volentieri. Nel testo riporto alcune delle conversazioni avute con loro. Te le riassumo: Mario Baldassarri mi ha liquidato gentilmente, Alberto Clò mi ha detto una cosa più che legittima, ossia di aver già riferito alle commissioni parlamentari e, dunque, non avrei potuto aspettarmi qualcosa di diverso da quanto non avesse già espresso in una sede istituzionale. Romano Prodi, infine, è stato più brusco, ma lo capisco».
Dal tuo libro emerge quanto il complottismo, ieri come oggi, sia stato e sia utile al potere. Perché? E in che modo lo era in quegli anni?
«Ti dico: sinceramente, non credo ci siano stati dei complotti dietro il rapimento di Aldo Moro. Riconosco che ci sono delle zone d’ombra, ma non le vedo parte di un complotto, quanto dei segreti del caso. Non credo neppure in un ruolo centrale dei servizi segreti o delle organizzazioni francesi, come si è detto. Leggo la vicenda in una chiave piuttosto lineare: le Brigate Rosse rapiscono il leader della DC e trattano con lo Stato che dice di no. Forse il vero nodo è lì, perché non si è voluta salvare la vita ad Aldo Moro?».
A tal proposito, il tuo libro riporta alcune delle lettere che Moro scrisse durante la sua prigionia. Tra queste, talune erano rivolte al suo partito, a Zaccagnini, al quale affida la responsabilità di ciò che gli accadrà da lì a poco. Quanto hanno inciso le lettere sulla vicenda? E quanto c’era del vero Aldo Moro in quelle epistole?
«Io la penso come Sciascia. Lui ha scritto L’affaire Moro per due motivi principali: il primo per evidenziare come la Democrazia Cristiana non abbia voluto salvare Aldo Moro, il secondo per affermare, con ancora più forza, che quello che scriveva le lettere era il vero leader democristiano e la delegittimazione che stava subendo era un’infamia. Ricorderai che la lettera dagli “amici” di Moro sosteneva che quei messaggi fossero stati scritti sotto dettatura delle Brigate Rosse. Leonardo Sciascia trovava questa cosa scandalosa, quindi si impegnò per salvare l’immagine dell’uomo. Sciascia era avverso al Moro politico, motivo per cui la sua posizione risulta ancora più forte. Aveva smesso di fare politica a causa sua, a causa dell’accordo tra il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana, una cosa che gli stava sullo stomaco. Non lo apprezzava come politico, ma quando ha riconosciuto in Aldo Moro un uomo fragile, in balia delle correnti del suo partito, ha deciso di ergersi in sua difesa. Anche io penso che si sia tentato di delegittimare quelle lettere perché stavano dicendo delle cose molto scomode proprio nei confronti dei leader della DC, Zaccagnini, Cossiga. Forse, quelle cose sono state la causa della sua morte, il motivo per cui è stato lasciato a se stesso e non lo si è voluto salvare. Avevano capito che Moro stava per parlare e avrebbe favorito un processo di disgregazione della DC e a quel punto non c’era motivo per salvarlo».
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Secondo te, questo non è un complotto?
«Se intendi che c’era un disegno da parte della Democrazia Cristiana nel lasciare che Moro morisse in quel modo, allora ti dico che probabilmente è così. Nel momento in cui una forza di potere che avrebbe potuto avere un ruolo decisivo nel salvargli la vita decide di abdicare a questo ruolo, chiamalo come vuoi, complotto, congiura, questa c’è stata. Molti storici hanno fatto studi in merito, lo hanno scritto tanti magistrati. Però, per complottismo intendo vedere complotti ovunque, anche dove non ci sono, e a me piace parlare di assodate verità storiche».
Senza spoilerare la fine del libro, dove tu ricostruisci – a tuo parere – ciò che è accaduto il giorno della seduta spiritica, che idea ti sei fatto di quella vicenda?
«La mia idea è che sia arrivata una soffiata, non so se da Trento o da Bologna o dalla Calabria, ci sono tante ipotesi sulla provenienza di quell’informazione su Gradoli. Come faceva l’FBI – che talvolta utilizzava questi metodi quando non voleva bruciare una fonte, ossia attribuiva una soffiata a una fonte paranormale, a un medium –, hanno trovato un modo per far emergere questa informazione e renderla pubblica. Io credo che sia arrivata quell’informazione da una fonte non meglio specificata, che abbiano trovato nella seduta spiritica il modo di far uscire quel dettaglio con l’intento di salvare la vita a Moro e poi, però, come abbiamo visto, tutto si è disperso. Nel libro io formulo varie ipotesi sia su come possa aver agito la fonte vera e propria che su come sono andate realmente le cose nella villa di Zappolino, ma qui devo fermarmi per non rovinare la sorpresa al lettore».
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