La Carta di Catania, il Decreto Assessoriale n. 74/GAB del 30 novembre 2020 firmato dall’Assessore regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana Alberto Samonà, autorizza le soprintendenze, i parchi archeologici, i musei, le gallerie e le biblioteche a concedere in prestito il proprio patrimonio, se in deposito, per la valorizzazione e la fruizione pubblica.
Il testo fa riferimento ai beni culturali che sono stati acquisiti per confisca, donati o consegnati spontaneamente, ma anche a quelli più datati di cui si è persa ormai la documentazione. Insomma, più in generale, a tutti quei beni che sono stati deprivati di ogni riferimento al loro contesto di appartenenza. L’Assessore Samonà, che lo ha fortemente voluto, ha definito il decreto un intervento rivoluzionario, «grazie al quale migliaia di beni culturali, spesso non inventariati e conservati nei depositi dei musei e degli altri luoghi della cultura regionali, potranno essere finalmente esposti e fruiti da tutti. […] La Carta di Catania offrirà, altresì, nuove opportunità ai giovani professionisti che saranno chiamati a lavorare da esterni a fianco dell’amministrazione e dei privati per rendere possibile l’attuazione dei progetti di concessione in uso dei beni richiesti».
In merito si è espressa anche la Soprintendente Rosalba Panvini, che ha redatto il testo: «Il documento, che sancisce un’importante svolta nella gestione del patrimonio regionale, è frutto di una proficua collaborazione […] Un lavoro di squadra che ha portato in brevissimo tempo a un’importante innovazione nella complessiva gestione e valorizzazione dei beni culturali cosiddetti minori». Ma è veramente così?
Il prestito – recita l’articolo 6 – sarà subordinato al pagamento di un corrispettivo che non potrà essere inferiore a un decimo del valore dei beni concessi, così come desunto dalle stime inventariali operate dal deposito regionale di origine. Il pagamento potrà altresì avvenire in denaro, ma anche attraverso la fornitura di beni e/o servizi destinati al patrimonio oggetto della concessione, o in favore di altri beni in giacenza nel medesimo deposito di provenienza o, in generale, a sostegno dei beni culturali del Demanio e Patrimonio della Regione Sicilia, quali, a titolo meramente esemplificativo e non esaustivo, restauro, analisi archeometriche, catalogazione, pubblicazione e marketing e, ancora, fornitura di beni, servizi di infrastrutture o migliorie in favore del deposito di provenienza dei beni da concordarsi con l’istituto concedente.
La Carta di Catania stabilisce, inoltre, che il prestito può avere una durata compresa tra i due e i sette anni e può essere prorogato una sola volta. Allo scadere del periodo, il bene tornerà presso l’istituto di origine. Per portare a buon fine l’esito del prestito, l’istituto che concederà quella determinata opera ha il dovere di produrre un documento tecnico nel quale sono spiegate le misure di sicurezza e di conservazione dello spazio espositivo che lo accoglierà, nonché un progetto di valorizzazione, il modo in cui intende garantirne la fruizione pubblica, possibilmente gratuita, e, a livello economico, l’occupazione che lo sviluppo dell’intero progetto andrà a significare.
Un programma, quello voluto da Samonà, immediatamente attaccato da Salvatore Settis sulle pagine de Il Fatto Quotidiano: La cosiddetta Carta di Catania incide sul patrimonio culturale della più grande Regione d’Italia (e una delle più ricche di beni culturali). Ma è ancor più pericolosa, perché vien diffusa come potesse servire da modello. Qualche precisazione è dunque necessaria. Prima di tutto, l’articolo 6 del Codice dei beni culturali definisce la valorizzazione come intesa non a far cassa, ma a “promuovere la conoscenza del patrimonio culturale al fine di promuovere lo sviluppo della cultura”. Quanto ai depositi dei musei, la norma siciliana è vittima del pregiudizio, diffuso ma non per questo meno fallace, che i materiali in deposito siano condannati in perpetuo all’oscurità, coperti di polvere, trascurati dagli addetti ai lavori e ignorati dai cittadini. […] Non meno irresponsabile è l’idea di affidare a studenti tirocinanti un compito come la scelta dei materiali da “affittare”. Reclutare manodopera non pagata risponde alla stessa ratio alla base della cosiddetta alternanza scuola-lavoro, generalmente fallimentare. Comporta il disprezzo per la competenza, anzi implica che per valutare quel che è nei depositi si possa fare a meno di un occhio esercitato, quale non può avere uno studente universitario alle prime armi. […] Un decreto che verrà, speriamo, contestato nella stessa Sicilia a causa della sua genericità che lo rende inapplicabile. Ma il governo nazionale non potrebbe battere un colpo?
Del resto, come dare torto allo storico dell’arte? La Carta di Catania può funzionare in presenza di un sistema dei beni culturali perfetto, quando le soprintendenze lavorano con coscienza, quando la politica e i politici supportano il settore rispettando i tecnici che vi lavorano e, soprattutto, quando i professionisti vengono pagati, in maniera quantomeno dignitosa. La realtà dei beni culturali in Italia, invece, è purtroppo molto diversa da tutto questo: basti pensare che lo scorso 10 dicembre l’Assessore Samonà ha anche firmato il decreto n. 78 nel quale riporta le linee guida di applicazione della Carta di Catania, creando, a detta di molti – tra cui Gianfranco Zanna, Presidente di Legambiente Sicilia, Alessandro Garrisi, Presidente dell’Associazione Nazionale Archeologi e tanti altri – ancora più confusione.
Dal punto di vista formale, scrive Silvia Mazza per Finestre sull’Arte, sembra che il decreto sia viziato da una contraddizione tra i richiami normativi in premessa, che rinviano a decreti assessoriali che disciplinano la materia dei prestiti, quando l’oggetto del decreto è, invece, la concessione in uso dei beni culturali. Che in fase di applicazione possa ingenerare sovrapposizioni tra due istituti distinti e separati, quello del prestito e quello della concessione in uso, disciplinati da altrettanto distinti articoli del Codice dei beni culturali, sembra trovare, peraltro, conferma nel comunicato stampa dell’Assessore in cui si legge che “con la Carta di Catania si ottiene, finalmente, una deroga al decreto n. 1771 del 2013 che regolamenta l’uscita dal territorio della Regione Sicilia dei beni culturali facenti parte delle collezioni di musei, pinacoteche, gallerie, archivi e biblioteche”.
Le basi della Carta di Catania sono sicuramente buone, anche perché sarebbe un sogno veder uscire dall’oblio quel patrimonio che, tristemente, ha trovato la sua fissa dimora presso i depositi senza vedere mai la luce, presentarsi al pubblico e permettere a questo di fruirne. Tuttavia, troppe questioni sono lasciate in sospeso o sono trattate con poca attenzione. Del resto, quando una legge si presente generica nella sua struttura e precisa soltanto in alcuni punti specifici, di certo non può lasciare tranquilli. Ancora una volta, ci si ritrova in un grave depauperamento delle competenze specialistiche del personale dei beni culturali e, cosa ancora più grave, si va a formalizzare la pratica di uso di questi beni considerati a tutti gli effetti come merce e non come patrimonio pubblico.