Nella fitta produzione libraria che in ogni forma riempie gli scaffali di librerie e siti dove è possibile acquistarli, solo alcuni autori riescono a dominare le classifiche sfruttando quei filoni che in un determinato periodo maggiormente attirano l’interesse dei lettori. Ci sono, poi, settori di nicchia che mantengono da sempre un mercato, seppur limitato, ma di estremo interesse da parte di appassionati e sensibili amanti di quell’universo nascosto capace al momento opportuno di squarciare il velo della finzione e in un solo attimo di fotografare sentimenti e amori, rabbia e voglia di gridare. Quel mondo misterioso che è la poesia. Capita, inoltre, che poesia e arte delle immagini si fondano in un unico desiderio di far conoscere e trasmettere emozioni, come nel caso di Carlo Fedele e Ferdinando Kaiser, artisti silenziosi ma non troppo, da cui sovente sui social capita di ricevere una buonanotte con versi che non di rado agitano ore insonni o sogni beati, fotografie capaci di farti entrare nei bassi o nelle botteghe di artigiani, nei vicoli o nelle strade affollate di Spaccanapoli. Due artisti conosciuti e apprezzati da quegli appassionati e sensibili amanti di due mondi capaci di diventare un tutt’uno come nel caso di ‘A ttatìa – onna ca va, onna ca vene, il libro in versi in lingua napoletana di Carlo, accompagnati dalle delicate pennellate non casuali di Ferdinando, frutto di una collaborazione che siamo certi avrà ancora tanto da esprimere.
Quando si presenta una nuova opera, siamo in tanti a parlare, a dire la nostra che lascia il tempo che trova. Alla parola degli autori, però, preferiamo dare priorità assoluta, così come all’invito a leggere il libro per comprendere quel titolo: ‘A ttatìa.
I poeti, nel loro silenzio fanno ben più rumore di una dorata cupola di stelle. Carlo, concordi con il pensiero di Alda Merini espresso nei versi di una delle sue più note e belle poesie?
«Credo che la Merini, con queste parole riferite ai poeti che lavorano di notte, abbia fornito un perfetto identikit di noi operai dell’anima che, nel silenzio assoluto, a volte con affanno, a volte gioiosamente volenterosi e predisposti, sradichiamo quel macigno del grido interiore e lo portiamo alla luce quando il mondo dorme, indisturbati, parlando a noi stessi o parlando con la voce degli altri. Far crollare il cielo con le parole? Dipende se ci poniamo come falchi notturni od usignoli /dal dolcissimo canto. I primi squassano le certezze del mondo, i secondi le confermano. Ogni maniera ha, però, la sua utilità, dipende dal pubblico a cui è destinato il parto.»
C’è ancora posto per la poesia nei tempi in cui viviamo dove dominano violenza, arroganza, sopraffazione e intolleranza?
«A maggior ragione. La poesia è un’ulteriore arma per non accettare le regole del gioco, si prende libertà negate, è un invito alla riflessione. La poesia è la calma contro la frenesia, è la canzone degli “eroi” che non si lasciano abbindolare dai tempi che corrono, è il sassolino rotolante della montagna che si trastulla sull’argine di un fiume dopo gli affanni della discesa. La poesia è una forza evocativa, riscopre la bellezza ma anche la sopportazione del dolore, non si lascia trasportare dalle mode e dagli eventi. È un esame di coscienza. Quanto serva, dipende da quanta testimonianza di questo tempo si vuole offrire.»
Con questa nuova raccolta di perle di umanità in lingua partenopea, impreziosita dalle fotografie di Ferdinando Kaiser, ti cali in quella realtà, di cui da sempre ami cogliere gli aspetti più veri e genuini, di una Napoli dalle lunghe radici dalle quali è quasi impossibile staccarsi. I tuoi versi ne sono una prova evidente…
«Si è così per dove si nasce. Io per fortuna nasco a Napoli. Forse sarò il milionesimo napoletano che scrive romanzi, poesie, canzoni, ma è più facile farlo qui che non a Bolzano dove dicono si viva meglio… Essendo un contemplatore, ho davanti a me un patrimonio di ispirazione infinito, un luogo dove nessuno ha la città “sotto controllo”, ne conosce le pieghe conturbanti e neppure le piaghe, un luogo fatto di uomini, storia e cultura, a prescindere dall’intrinseca bellezza. È una città-archivio: più scavi, più viene fuori qualcosa di nuovo, impensabile. Miniera per i pensatori. Non sono mai stato a Bolzano e voglio continuare a vivere, dicono, male qui, in mezzo alla poesia. Nascere “sul mare” è già fortuna. Il mare è fonte di ricchezza ma anche di povertà. Quando tutto ciò lo senti a pelle, lo vedi con gli occhi, è come se avessi viaggiato ovunque e visto tutta la varia umanità. Perché, quindi, dovrei girare per davvero il mondo se Napoli ne è il crocevia se non l’ombelico? Io sono un poeta stanziale, probabilmente il prototipo e lo stereotipo del napoletano. Persino abitando un paio di chilometri più a nord di Mergellina, dove ebbi i natali, penso comunque da mergellinese. Sono assolutamente pigro.»
Poeta dell’impegno civile, la “voce” di chi non sa o non può gridare. Poeta civile dagli echi vivianei: così, nella sua bella presentazione, Toni Cosenza ha centrato l’essenza del tuo essere artista che dà voce a chi non ne ha, riscontrando affinità con il grande poeta del popolo Raffaele Viviani. Ti riconosci in questa splendida pennellata del Maestro?
«Spesso, qualcuno ha azzardato questi paragoni ma li ho sempre schivati e non per finta modestia col cuore raggiante, ma perché veramente per me è bestemmia. Pagherei qualsiasi cifra per scrivere, ad esempio, il suo ‘O vico, giusto per restare in tema di poesie. Parliamo comunque di epoche diverse, il linguaggio è diverso, le storie sono diverse, l’approccio con la gente è diverso. La napoletanità ha subito troppe influenze dal dopoguerra a oggi per essere sempre la stessa. Io mi sforzo solo di non perderla. Forse mi accomuna al Maestro Viviani (mi perdoni il Maestro Viviani) la voglia di scrivere degli ultimi, poco di bellezza esteriore, molto delle contraddizioni in seno al popolo. Ovviamente ringrazio il Maestro Cosenza di tanta stima e sono orgoglioso se ha trovato certi richiami assolutamente non voluti. Diciamo che è un caso, solo un caso. Credo che però soltanto l’attento lettore possa dare un giudizio sull’autore e mai l’autore su se stesso, io non sarei in grado di definirmi, non saprei neanche come fare. “Questo sono” dico spesso quando presento le mie poesie, e cosa sono non so. Quindi, le belle parole spese per me dal Maestro Cosenza restano perle incastonate nel mio ego e riconoscenza a vita per questo ritratto che me lo fa considerare un critico affettuoso altrettanto ricambiato. Addirittura nasco, da giovane, più propenso alla gentilezza di Salvatore Di Giacomo, poeta da sempre inflazionato e troppo zuccherino, cosa, quest’ultima, che con la mia indole va a cozzare e che con le esperienze personali di vita va in contraddizione, pur conservando in me la sua presenza nelle strofe più romantiche (senza scadere nel languido).»
Quanto ha contato la fotografia di Ferdinando nel veicolare i tuoi versi in quell’universo di amore viscerale per Napoli e tutto ciò che le appartiene?
«Le foto di Ferdinando Kaiser e le mie poesie si sono semplicemente trovate, non sono consequenziali. Diciamo pure che è stato un trovarsi scontato, perché nella poesia scrivo delle mani operose e lui le fotografa da sempre, scrivo degli occhi spesso vecchi e stanchi e lui li fotografa da sempre, scrivo di una Napoli poco conosciuta e lui la fotografa da sempre. Non avrei mai potuto fare un libro in collaborazione con nessun altro, nemmeno con il più grande fotografo del mondo (a prescindere dalla bravura intrinseca di Kaiser) se questi non avesse messo nel mirino l’anima della gente e dei posti. Ferdinando inconsapevolmente fotografava le mie poesie e io altrettanto inconsapevolmente scrivevo dei suoi scatti. Dopo un breve fidanzamento ci siamo sposati artisticamente, ma non è stata una fatica. La fortuna è stata di nascere tutti e due napoletani, con una visione del mondo molto simile.»
I tuoi versi magistralmente musicati e cantati dal Maestro Gianni Lamagna in due splendide canzoni e altre collaborazioni che potranno realizzarsi cosa rappresentano per la tua poesia?
«Il coronamento di un sogno. Avere la considerazione di un artista di tale fattura è un vanto. Un grande che passa dalla traduzione cantata e pluripremiata dei sonetti di William Shakespeare, una pietra miliare della musica napoletana che ha attraversato studi filologici e ricerche etnomusicologiche, che ha recitato nei più prestigiosi teatri in Italia e nel mondo e che poi arriva a musicare le poesie di un carneade come me… Una delle più belle sorprese che mi ha regalato la vita, la piacevolezza che le mie poesie hanno smosso un’anima sì bella. Tutto nasce sui famigerati social, dove amo postare le mie poesie. Tra i like mi giungevano quelli graditi di questa figura unica nel panorama nostrano per attaccamento e dedizione alla cultura napoletana. Così come mi giungevano le sue cazziate per non aver curato particolarmente la scrittura. E aveva ragione. Stentavo a crederci di ricevere tale e tanta confidenza, poi un giorno mi scrisse: “Ho una sorpresa per te”, come si dice a un familiare, a un amico di vecchia data. E me la venne a cantare una mia poesia, con la modestia che solo i grandi posseggono, in occasione della presentazione del mio primo libro in lingua italiana. Mi resta ancora un unico sogno nella mia “vita da poeta” in riferimento alla domanda, lo confesso a te per la prima volta: vorrei essere un giorno per lui quello che fu il poeta Salvatore Palomba per Sergio Bruni. Lo so, sto peccando di presunzione e non è da me, mi conosci, ma ho premesso che si tratta di un sogno. Non dirlo a Gianni Lamagna, non scriverlo, che il Maestro poi mi legge e mi “strappa” pure quel che di mio ha già cantato e canta…»
Ferdinando, cosa è per te la fotografia?
«È scoprire quello che tutti guardano ma pochi vedono, nel senso che io non vado come molti alla ricerca dell’eccezionale, dell’inusuale. Fotografo quello che accade tutti i giorni sotto i nostri occhi, la totalità delle mie foto riguarda quello che accade nei vicoli, per strada.»
Perché proprio con Carlo e non con altri che so interessati a una collaborazione con te?
«Per i contenuti delle sue poesie e perché, in quello che scrive, Carlo mette l’anima. Riscontro sempre un’unità di intenti nel cercare di trasmettere ciò che si ha dentro attraverso la fotografia e la poesia.»
Il filosofo cinese Confucio sosteneva che un’immagine vale più di mille parole. La tua fotografia che va dai personaggi alle opere d’arte, ai particolari di momenti di vita di tutti i giorni, ritieni riesca a trasmettere agli altri le tue emozioni?
«Spero di sì. Chiaro che poi ognuno recepisce secondo la propria sensibilità. È simpatico vedere come a volte guardare scene di vita quotidiana susciti un moto di sorpresa, quasi come se noi tutti tendessimo a realizzare qualcosa di straordinario senza renderci conto che magari lo facciamo nei gesti semplici di ogni giorno.»
In una foto è impressa la realtà, la poesia quasi sempre va oltre. L’incontro tra queste due espressioni artistiche come si è concretizzata nel vostro libro?
«La profondità della poesia può spiegare e far comprendere quello che nella realtà illustrata dalla foto magari sfugge. Credo che la spiegazione sia tutta qui.»