Giacomo Seydou Sy è un ragazzo di appena 28 anni. Ha commesso degli errori, è stato arrestato e, in attesa del processo, è un detenuto del carcere di Rebibbia. È una persona con delle patologie psichiatriche gravi, disturbo della personalità e disturbo bipolare, il cui stato di salute è ritenuto incompatibile con la detenzione.
Il gip di Roma ha infatti disposto, fin da subito, nel gennaio 2019, il suo immediato collocamento in una residenza per le misure di sicurezza (REMS). Questo trasferimento non è però mai avvenuto, stante la mancanza di un posto disponibile, e il giovane non è stato destinatario di alcuna strategia terapeutica che potesse almeno mitigare le sue sofferenze, il tutto in un ambiente patogeno come il carcere. La vicenda è stata portata all’attenzione della Corte Europea dei diritti dell’uomo che pochi giorni fa ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione che vieta trattamenti inumani e degradanti. Ma le violazioni sono molteplici: dell’articolo 5 (detenzione illegittima), dell’articolo 5 comma 5 (violazione del diritto al risarcimento), degli articoli 6 e 34 riguardanti il diritto a un processo equo e al ricorso individuale. Si tratta infatti di trattenere in carcere senza alcun titolo un soggetto che necessita di cure costanti che non possono essere garantite.
Il primo principio sancito dalla Corte riguarda l’essenza stessa del carcere come luogo che non può essere di cura né di presa in carico di patologie psichiatriche gravi: è chiaro che vadano immaginati nuovi modelli per la salute mentale e che ciò debba avvenire dialogando costantemente con i servizi sanitari territoriali, ricorrendo a misure di tipo comunitario o residenziale, e che si abbandoni quindi una logica meramente custodiale, totalmente deleterea in tali situazioni. Ma la Corte precisa anche che le REMS – nate per sostituire gli ospedali psichiatrici giudiziari, abbracciando però una finalità riabilitativa e di cura – non devono essere considerate l’unica soluzione disponibile, anche perché esse si rivolgono a chi manifesta una pericolosità sociale che non può essere affrontata con strumenti alternativi e dunque non detentivi. Come sottolineato dalla stessa Associazione Antigone, infatti, sarebbe un errore interpretare la pronuncia esclusivamente nel senso di realizzare nuove REMS poiché questo condurrebbe a ulteriori condanne.
La CEDU, già con il provvedimento provvisorio emanato nell’aprile 2020, aveva sancito una precisa responsabilità del governo italiano per trovare un posto nelle REMS o altra soluzione adeguata. Ma l’unica risposta pervenuta dal governo che allora era capeggiato da Conte rimandava all’impossibilità di stabilire qualunque altra collocazione per l’uomo e a quella di trovare un posto nelle REMS, poiché non ce n’erano disponibili.
La necessità di un rapporto sinergico tra magistratura e servizi sanitari è quanto prospettato di recente anche dalla stessa Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del sistema delle REMS e delle misure di sicurezza psichiatriche dal giudice di Tivoli. La Corte, dopo aver emesso un’ordinanza istruttoria con cui chiedeva chiarimenti e dati ai Ministeri competenti, si è pronunciata nel senso di dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale. Tuttavia, non ha mancato di rilevare le numerose criticità che caratterizzano la materia, precisando di trovarsi nell’impossibilità di pronunciarsi diversamente per evitare un intollerabile vuoto di tutela. Il giudice a quo, infatti, chiedeva di dichiarare l’incostituzionalità della disciplina nella parte in cui non prevede alcun potere di organizzazione e funzionamento delle REMS in capo al Ministro della Giustizia.
Come si legge nella decisione della Consulta, una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata per violazione delle riserve di legge poste dall’art. 25, terzo comma, e dall’art. 32 Cost. determinerebbe l’integrale caducazione del sistema delle REMS, che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi OPG; e produrrebbe non solo un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti, ma anche un risultato diametralmente opposto a quello auspicato dal rimettente, che mira invece a rendere più efficiente il sistema esistente, mediante il superamento delle difficoltà che impediscono la tempestiva collocazione degli interessati in una struttura idonea.
Segue poi un chiaro invito al legislatore a riformare la materia, tenendo conto innanzitutto che essa necessita di una corposa base legislativa, mentre – come rilevato dalla stessa Corte – è al momento lasciata in gran parte a fonti subordinate e ad accordi tra governo e autonomie locali di un implemento dello stesso numero di REMS e di un’attività di monitoraggio e coordinamento affidata al Ministro della Giustizia, anche attraverso strumenti di tutela della salute mentale differenti.
Questi non sono certo casi unici né rari poiché quello della salute mentale è un problema mai affrontato e sminuito dell’Italia, da parte della stessa società libera, che poi si acuisce attraverso la detenzione. Basti pensare all’esclusione del bonus psicologico tra quelli previsti dal governo ai fini della ripresa sociale del Paese, alla mancanza di qualsiasi visione d’insieme o progettualità sul tema, al fatto che solo il 3% del budget del SSN è destinato ai servizi di salute mentale. Tale difficoltà diventa poi insormontabile nei luoghi di privazione della libertà per i quali l’opinione pubblica fa addirittura fatica a immaginare che si tratti di persone. Più di un terzo dei detenuti soffre di disagio psichico e questo viene trattato in un’ottica meramente custodiale e repressiva e medicalizzato attraverso l’uso continuo di psicofarmaci, senza un intervento serio da parte di professionisti come psicologi o psichiatri. A ciò si aggiunga che il carcere è un luogo di per sé patogeno a causa dell’angustità degli spazi, della mancanza di aria e luce, del sovraffollamento cronico e della difficoltà legata alla vita comunitaria coatta.
Non è la prima volta che l’Italia viene condannata dalla CEDU perché colpevole di trattamenti inumani e degradanti nelle sue prigioni: ricordiamo perfettamente la sentenza Torreggiani, che condusse nel 2013 a interventi finalizzati alla decongestione delle prigioni e alla loro migliore vivibilità. Tuttavia – e la pandemia l’ha messo ben in luce – il carcere è lontano dall’interesse della politica e gli unici sporadici interventi che vengono portati avanti sono emergenziali, dunque non idonei a risolvere problemi strutturali e di base che riguardano la stessa concezione di pena.
Da quanto abbiamo appena raccontato emerge un corto circuito inaccettabile in termini di inviolabilità della vita e della dignità umana. Non si tratta della risoluzione di un singolo caso, bensì di un chiaro invito a seguire la strada maestra dei diritti per poter rendere dignitosa la pena e il carcere. Per abbandonare applicazioni meccaniche della legge e ricordarsi che chi abbiamo di fronte è una persona, nella sua singolarità e specialità, e che necessita di interventi mirati e peculiari perché essi possano ottenere l’effetto di una riabilitazione.
Abbiamo bisogno di esponenti politici e di un legislatore che si mostrino sensibili e lucidi rispetto al tema per non incorrere in nuove censure e dimostrarci finalmente un Paese civile. Eppure, di civiltà al momento neanche l’ombra.