Camilla Zeta è un nome senza volto, due occhi sgranati senza colore, un corpo esile che non può reagire. È una donna che grida di cui non si conosce la voce, ma solo l’intonazione, chiara e decisa. Una storia che nessuno vuole ascoltare, una quotidianità interrotta, un urlo rivoluzionario nell’omertoso silenzio della calda estate napoletana. È il ricordo di un domani che non somiglierà ai propri sogni.
Si parla di lei negli ultimi giorni, di Camilla Zeta. Si parla di una violenza denunciata su un social network, di un’aggressione di matrice sessuale all’ombra dell’androne di un palazzo bene di via Chiaia. Si parla di incubi che fanno svegliare sudati e di grossa diffidenza.
La notte dello scorso 25 luglio, una donna, rispondente al nome di cui sopra, Camilla, scrive di aver subito, poco prima, una violenza da parte di tre uomini che l’hanno seguita all’interno del palazzo nel quale risiede in via San Pasquale di Chiaia 24. L’androne è grande e buio, facile nascondersi, facile non essere visti. Secondo il racconto, la donna indossa body e pantaloncini, è andata a gettare l’immondizia, gli aggressori non riescono a toglierle i vestiti, ma la tengono ferma e fanno quel che possono. Un ragazzo, però, scendendo le scale, si accorge che sta succedendo qualcosa. Interviene e, incassando un notevole colpo al naso, discute animatamente con gli altri tre che, dopo offese e prese in giro, lasciano prontamente l’edificio. Intanto, i restanti inquilini continuano a dormire sereni. Il giovane, allora, offre la propria maglietta alla vittima che, spaventata e imbarazzata, scappa nel suo appartamento al terzo piano, avvolta da un dolce profumo di vaniglia, quello del suo angelo custode, subito lavato via dalla doccia più interminabile e agognata che si possa fare. Sono le 2:25. Camilla, sola nella probabile compagnia di qualche infaticabile zanzara, affida a Facebook il racconto che non avrebbe mai immaginato di comporre. Eppure, non riesce più a tacere. Il post è pronto.
La notizia inizia a circolare rapidamente. Sin dal mattino successivo, infatti, lo scritto compare sulle bacheche di molte donne. Contatti vari, amici, conoscenti, poi anche estranei in ogni parte del Paese, creano una rete fitta di condivisioni che raggiunge anche Non una di meno, il movimento italiano contro la violenza di genere in tutte le sue forme. Subito, la pagina ufficiale della sezione partenopea diffonde il grido di rabbia e disillusione. Centinaia di messaggi e commenti annunciano solidarietà alla vittima. Camilla non è sola. A Napoli si scende in piazza.
Ora sono qui a scriverlo, perché devo in qualche modo eliminare la vergogna, la paura ma soprattutto la rabbia… […] Vorrei affacciarmi alla finestra e gridare che in giro ci sono dei delinquenti vigliacchi che in tre, forti del buio e dell’alcool hanno tentato di stuprarmi dentro un fottuto palazzo con almeno quattro appartamenti per piano e nonostante il trambusto NESSUNO è intervenuto.
Alla vicinanza della maggior parte degli utenti, però, si affianca prontamente anche la diffidenza di chi – comprese le principali testate che riportano l’accaduto – inizia a chiedersi perché la donna non abbia reagito e perché, al momento, abbia scelto un social piuttosto che le forze dell’ordine o un ospedale per denunciare la violenza. Anche in questo caso, per rispondere a chi la accusa persino di volersi fare pubblicità, Camilla si affida alla sua bacheca Facebook:
Voglio dire che no, non ho reagito (eh già, me l’hanno appena chiesto) perché quando pesi cinquanta chili e tre infami ti tengono ferma contro un muro pensi solo che se ci provi ti prendi anche le botte e io in quel momento ero già triste e con il cuore spezzato per fatti miei e non ho avuto né la forza morale né quella fisica di difendermi.
E ancora:
Ho pensato di denunciarli, ma che senso avrebbe? Li ho a malapena intravisti, era buio, e beh, io avevo i pantaloncini corti e un body attillato e non ce l’avrei fatta a sentirmi dire “te la sei cercata”… Anche se non lo dicono, alcune persone (forze dell’ordine in particolare) ce l’hanno scritto negli occhi. Ma NON VOGLIO tacere.
Inevitabilmente, c’è un’indagine da aprire. Verificare la veridicità della storia della donna, già madre, è ovviamente fondamentale, soprattutto per tentare di rintracciare i tre aggressori. Tuttavia, non bisogna commettere l’errore di associare – forzatamente – la mancata denuncia alla mancata violenza. Perché è questo che in tanti, nelle ultime ore, stanno facendo: chiedersi se la storia sia reale. Pare, infatti, che la lucidità del racconto di Camilla abbia spiazzato taluni lettori, scettici soprattutto in assenza di un documento ufficiale che ne attesti, sin dal primo istante, l’affidabilità. Ma è davvero un referto medico a fare la differenza? O è una denuncia alle autorità l’unica prova di un violento atto sessuale? Sia chiaro, in questa sede non ci sono più risposte o meno domande, tantomeno giudizi. C’è solo un tentativo di comprensione, misto a un sentimento frustrante che accompagna, spesso, le donne, statisticamente vittime preferite di chi vuole abusare fisicamente di un altro.
Una donna che parla è malata di protagonismo. Una donna che rompe il silenzio denigra una città. Una donna che scrive su Fb non è degna di stima. Se il racconto è troppo “romanzato” allora è falso. Io so solo che la mia vita era stupenda e che adesso non so più chi sono. È come essere stuprata due volte.
È difficile da spiegare, soprattutto in una società giudice come la nostra, mai realmente evoluta, quanto sia arduo confessare di aver subito una violenza. Tacere, il più delle volte, è la soluzione prediletta – ma assolutamente non più semplice – che la maggior parte delle persone sceglie. Rifugiarsi nel proprio segreto “aiuta” a non confrontarsi con un mondo sempre pronto a difendere il carnefice e mai la vittima, soprattutto se del gentil sesso che, ovviamente, se l’è andata a cercare, secondo una perversa logica per la quale non è chi attacca il colpevole, ma chi viene attaccato il provocatore.
Camilla Zeta, invece, non ha saputo zittirsi. Che la sua storia sia vera o meno – e chi di dovere dovrà accertarsene – ha sicuramente aperto a una strada nuova che può dare coraggio a coloro a cui la forza di parlare, facendosene una condanna, manca.
Un sottobosco di dolore, di paura, di silenzio. Molte mi hanno rivelato di non aver mai detto a nessuno quello che era successo, per paura, per vergogna, per timore di non essere credute o per il terrore di essere messe alla gogna.
Di certo, non sarà un social network a restituire quanto una violenza ha strappato via. Di certo, affidarsi alle autorità e a chiunque abbia le competenze giuste per un sostegno psicologico è assolutamente necessario, ma è anche la parte più difficile. E Camilla la sta affrontando, oggi anche con una denuncia ufficiale. Forse, per la protagonista degli ultimi giorni e per tutte le altre, scrivere, anziché sentire la propria voce buttare fuori l’improvviso capovolgimento di un’esistenza più o meno regolare, è l’unica possibilità di salvezza, è lasciare che la porta non si chiuda, è non restare sole in una stanza senza finestre. Forse, non è vero che Camilla non abbia una volto. In fondo, somiglia a quello di ognuno di noi.