“I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.”
Immagino ricordiate di chi sono queste parole. Sì, sono di Umberto Eco. Quando anni fa vennero pronunciate dal celebre semiologo in molti – me compresa – borbottarono frasi sparse per difendere il diritto di tutti ad accedere al mondo della cultura. All’epoca si aveva meno il presagio, o più semplicemente non era ancora così palese, che l’accesso delle masse ai social media avrebbe prodotto un dilagare di informazioni dannose e fuorvianti. In quanto figli delle sue orazioni, non possiamo invece che dargli ragione proprio ora, nel momento in cui non può più sentirci, ora che le sue profezie si sono avverate. Col senno di poi, in effetti, ci saremmo potuti arrivare prima.
Cosa direbbe, infatti, oggi Umberto Eco se vedesse il professor Roberto Burioni costretto a difendersi dall’accusa di essere rettiliano (con una “faccia demoniaca”), intento a spendere decine e decine di ore del proprio tempo per salvare gli italiani dalla cattiva informazione? Questo non possiamo saperlo, ma non fatichiamo a immaginare la sua riprovazione e – contemporaneamente – la sua assenza di sorpresa.
Quando ebbi il piacere di incontrarlo e di seguire una sua intervista, durante il Festival della Divulgazione a Potenza, il virologo Roberto Burioni – allora reduce dall’incontro/scontro con Red Ronnie – già difendeva con parole semplici e autorevoli il ruolo degli esperti nella divulgazione scientifica, segnando il discrime tra coloro che possono e non possono dare informazioni accreditate al resto della popolazione.
La sua era ed è una fermezza alla quale non eravamo più abituati, ma che immediatamente ci restituisce un senso di fiducia e autorità, un senso di limpidezza. Ed è in questa chiarezza del metodo e della comunicazione che è possibile ritrovare gli strumenti per orientarsi nella realtà e nelle questioni che essa ci pone. Forse questa “immediatezza” dei nuovi mezzi di comunicazione ci ha fatto perdere il senso dell’umiltà e del rispetto nei riguardi di chi spende la propria vita per la sua formazione personale e per la ricerca, di chi realmente può erudirci.
Nel momento in cui Burioni ci dice che la scienza non è democratica, in realtà ci sta ricordando che il sapere non è democratico e che non basta il semplice atto di essere al mondo per avere il diritto di esprimere un’idea, concedendosi il lusso di astenersi dal dovere di informarsi e di corroborare l’idea stessa. Di comprendere se essa può o meno causare un danno.
Ad esempio, usare il panico destato dai nuovi casi di meningite per ricollegarli ai recenti flussi migratori nel territorio italiano, senza informarsi adeguatamente, significa esprimere un’idea dannosa. Significa incolpare un capro espiatorio al posto di interrogarsi sulle proprie responsabilità e sulle proprie conoscenze. Consultando le pubblicazioni del professore – in cui sono riportate meticolosamente le fonti da cui le informazioni vengono tratte – si scopre, infatti, che i ceppi maggiormente diffusi in Africa – A, W-135 e X – sono diversi da quelli diffusi in Europa, ossia C e B, e che anche l’epidemia causata in Niger dal ceppo C presenta “un clone del tutto diverso da quello che viene isolato dai pazienti in Toscana”.
Difatti, come ha affermato qualche giorno fa lo stesso Burioni, “invece di prendercela con chi non ha colpe, ricordiamo che contro questo meningococco abbiamo a disposizione un vaccino efficace e che se tutti i genitori vaccinassero i loro figli la malattia scomparirebbe nei bambini e negli adulti, come è già accaduto in numerosi paesi”.
Perché mentre è vero che esistono diversi ceppi di meningite nel mondo, esiste invece un unico ceppo per l’ignoranza, il quale ha a sua volta un unico rimedio: lo studio e la corretta informazione.