Quello delle discriminazioni è un fenomeno ormai largamente dibattuto che attira facilmente gli onori delle cronache: sebbene basato su culture e stereotipi differenti, esso è inevitabilmente presente ovunque. Ma, di tutte le discriminazioni che ogni giorno denunciamo, ne esiste una, tanto radicata quanto sottovalutata, che le racchiude tutte. Si tratta del bullismo, quel tipo di violenza fisica e psicologica che mette le radici negli ambienti giovanili e che, proprio a causa dell’età dei suoi protagonisti, riceve scarsa attenzione, dimenticando che spesso il mondo di giovani e bambini fa da specchio a una società in cui gli abusi, tra adulti, sono largamente tollerati.
Ce le abbiamo tutti ben presenti certe scene dei film americani con protagonisti adolescenti rinchiusi negli armadietti o nei cassonetti dell’immondizia, scene tragicomiche a cui non sempre si dà il giusto peso e che, a dirla tutta, sono diventate quasi un cliché per le narrazioni teen, abbastanza, almeno, da non essere prese troppo sul serio. Episodi che accadono solo nei film o, al massimo, dove quei film vengono girati, che non ci riguardano davvero da vicino: è questa, più o meno, la credenza comune nei confronti del bullismo, un tipo di abuso che è sempre stato minimizzato e a cui tutt’oggi non viene dedicata un’accurata riflessione.
Nonostante si tratti di un fenomeno in costante crescita in Italia come a livello internazionale, infatti, il bullismo è da sempre ridotto a innocenti scherzi tra ragazzi, tanto che i primi studi a riguardo risalgono solo al secondo Novecento. Eppure si tratta di atti che spesso hanno gravissime ripercussioni sulle vittime, soprattutto quando non si fornisce loro la giusta assistenza e non si affronta con delicatezza la situazione. È difficile, però, dire se il panorama preoccupante che si sta formando dipenda da una reale crescita del fenomeno o se sia semplicemente aumentata l’attenzione a esso dedicata: in fondo, il bullismo è sempre esistito, ma solo in tempi recenti è stato riconosciuto come forma di violenza, sebbene condivida molte caratteristiche con quelle forme di abuso che compongono la rosa degli atti discriminatori di cui è fatto il mondo.
Ci si chiede spesso, in effetti, delle origini dell’odio tra razze e generi, tra religioni e orientamenti, e la risposta è sempre un insieme di fattori che coinvolge l’educazione e l’istruzione, l’ambiente di sviluppo del pensiero e la famiglia d’origine. Tutti fattori dell’età giovanile, quella che corrisponde al momento della formazione del carattere e delle idee di ogni individuo. Eppure, quegli stessi luoghi di formazione potrebbero non essere ridotti solo alla causa dei fenomeni discriminatori, ma essere anche il terreno su cui agire e identificare i segnali di intolleranza e prevaricazione, in tempo per porvi rimedio.
Ciò che spesso si tende a sottovalutare, probabilmente proprio a causa della giovane età di bulli e vittime, è l’importanza dell’infanzia e dell’adolescenza nella definizione della personalità degli individui. Lasciare che gli atti di bullismo più comuni, quelli che appaiono poco gravi agli occhi degli osservatori esterni, avvengano senza conseguenze o ripercussioni, insegna ai carnefici che la violenza e l’odio sono tollerati, e rischiano di lasciar passare un messaggio sbagliato a cui crederanno per tutta la vita. È difficile distinguere tra giusto e sbagliato se nessuno fornisce i termini di paragone corretti e gli atti di bullismo incontrastati diventano la palestra di quell’odio che da adulti sembrerà giustificato. Se le conseguenze – che vanno da difficoltà a socializzare fino alla depressione, per non parlare dei più tragici casi finiti in suicidio – preoccupano solo per il benessere delle vittime – e talvolta nemmeno per quello –, le ripercussioni del bullismo sugli aggressori riguardano l’intera società, una società che insegna ai suoi giovani che l’odio è accettato, se non incoraggiato.
Per giunta, spesso il bullismo si esprime tramite gli stessi stereotipi su cui si fondano le disparità. Non sono rare, infatti, le notizie su atti finiti male fondati su discriminazioni di tipo razziale. Ma non è solo nei grandi gesti di violenza che si rintraccia la somiglianza con quell’intollerante mondo degli adulti che non libera nessuno dalle ingiustizie. I dati in crescita mostrano che il 50% dei giovani tra gli 11 e i 17 anni è vittima di bullismo e il fattore razziale diventa discriminante per la scelta delle vittime, così come la provenienza da ambienti più poveri o disagiati. Invece, per quanto riguarda il cyber bullismo, le principali vittime sono le ragazze, spesso sottoposte a tipi di prepotenze non dissimili dagli abusi di genere.
In realtà, il fenomeno è dibattuto proprio a causa della sua difficile identificazione ma, sebbene esistano pareri diversi, gli studiosi concordano con alcune caratteristiche specifiche: squilibrio di forza e abuso di potere. Temi che appaiono familiari perché comuni ai più disparati atti di odio e violenza. Il bullismo, dunque, che sia di gruppo o perpetrato dal singolo, si approfitta di una posizione di superiorità per vessare il prossimo in modo non tanto dissimile dall’abuso del bianco sul nero o dell’uomo sulla donna. E il potere di cui si parla non si limita, come accade spesso di pensare, alla popolarità all’interno del contesto sociale o scolastico, ma si avvale di quei pericolosi stereotipi di cui l’ingiustizia si nutre anche all’esterno del panorama infantile.
Violenza di classe, di genere o razziale, dunque, tutti temi estremamente familiari, la cui natura non differisce dalle forme di discriminazione più comuni nel mondo degli adulti, e nonostante i quali il bullismo non viene considerato il presagio della propensione all’odio. Come se non fosse sintomo di intolleranza l’offesa a un ragazzo per il suo orientamento sessuale, come se non fosse violenza di genere il contatto fisico improprio e indesiderato con il corpo femminile e come se non fosse razzismo l’esclusione del giovane dalle origini più umili. Come se la violenza fisica, verbale, psicologia o emotiva fossero ammesse. Come se le prevaricazioni fossero tollerate. Come se si acconsentisse tacitamente all’odio. E, forse, è proprio questo il punto.