A ciò che si rompe, muta e vive ancora. Si chiude così il romanzo di esordio di Raffaella Simoncini (NEO Edizioni), con una dedica che mi è parsa carezza. A se stessa, alla malattia, ai secondi che compongono una giornata anche se restano immobili. Al tempo senza voce, al corpo senza spazio, alle etichette inutili e prive di istruzioni.
Quanti prima e dopo esistono nella vita di ognuno? Quante porte girevoli, spartiacque, segnalibri stanno a dividere ciò che siamo da ciò che saremo o siamo stati? Quanto affanno rallenta il passo tra la partenza e il traguardo? Cresciamo, sin da bambini, pensando di non essere altro che piccoli punti su un’effimera linea del tempo. Passato, presente, futuro. Indugiamo, come in equilibrio, proiettati nella sola direzione possibile, funamboli costretti ad avanzare anche quando ciò che vorremmo è restare fermi, per un attimo o poco più, a goderci il panorama, la bandierina appena piantata, la distanza che ci separa da quel che sembrava impossibile e invece è stato o viceversa.
Ma cosa succede se nulla o tutto cambia? Si può parlare ugualmente di scorrere del tempo? Se il tempo non ha voce, non più, cosa diventiamo? Ingombranti. È questo che significa bulky, la strana parolina che dà il titolo al romanzo. Ingombrante. Un termine che, in ambito medico, sta a indicare la particolare massa tumorale che invade la cartella clinica della giovane protagonista.
Anamnesi, terapia, convalescenza. Raffaella Simoncini non lesina dettagli, vocaboli tecnici, sensazioni, fastidi, odori, paure. Dai capelli che cadono al palato che cambia di sensibilità, quella che scopriamo essere stata anche esperienza di vita dell’autrice ci racconta la malattia con gli occhi di chi la vive, Luce, e di chi l’ha vissuta, Raffaella. Non un racconto autobiografico, ma il mescolarsi di realtà e finzione che guarda alla diagnosi per ciò che è e per ciò che potenzialmente può essere: occasione.
Occasione di incontro tra Luce e Cuoca, ad esempio: stessa stanza, stesso male, stesso disincanto. Poi anche qualcosina in più: la riscoperta di sé, l’amicizia, il conforto di un dolore ingiusto e di un sogno condiviso.
«La solita presuntuosa».
«E tu la solita permalosa».
[…]
«Oltre che presuntuosa, pure maleducata».
«Oltre che permalosa, pure acida».
Il tempo, in ospedale, è scandito dagli altri. Dai turni di visita e da quelli al bagno, dal televisore che è acceso quando vorresti riposare e dai pasti serviti sempre alla stessa ora. Dal mondo, quello fuori, che si affaccia in corsia tentando di riprodurre una qualche forma di normalità.
Qui dentro impari il linguaggio segreto delle borse molto in fretta. Gli zaini sono per quelli che vogliono mantenere un certo stile e portarti qualcosa senza dare nell’occhio. Il sacchetto del supermercato è per chi ha fatto acquisti all’ultimo minuto e non è riuscito a fare di meglio, ma non poteva venire a mani vuote. Le borse di stoffa, quelle piatte, sono per chi conosce bene e ti porta poche cose ben scelte, apparentemente inutili ma in realtà sono essenziali. Quelle di plastica rigide, capienti e funzionali, per le mamme, che ci infilano di tutto, dai pigiami ai biscotti. E poi ci sono i sacchetti di carta dei negozi, che tieni da parte, piegati con cura in un cassetto. Sul fondo andranno gli oggetti più pesanti e poi quelli più piccoli e leggeri, in un equilibrio curato. Sono sacchetti che non dicono nulla del loro contenuto.
A dire invece pensano i corpi, quelli che cercano uno spazio da occupare mentre si rompono, mutano e vivono ancora. I corpi che si riconoscono: tra loro, quando soffrono dello stesso male; tra loro e gli altri, quelli sani, quelli che non soffrono, quelli che disegnano come una linea di demarcazione, il tratto distintivo, il prima e il dopo.
L’etichetta del sopravvissuto è di conforto per quelli intorno a te, che nella tua esistenza trovano un senso alla loro, ma per te resta solo un’etichetta, inutile e priva di istruzioni.
E il prima e il dopo, in Bulky, non mancano. Luce, la sua storia, la storia di Cuoca (in realtà Iole), la storia di tanti che vivono o hanno vissuto una condizione che non hanno scelto. Il prima e il dopo. Un corpo sano e un corpo malato. Piccoli punti su un’effimera linea del tempo che è vita, che è restare, esserci, volare leggeri come uccelli di carta: dispiega le ali sul mio petto e si nasconde al centro del taglio, per proteggermi. La ferita si farà cicatrice, la cicatrice nuova pelle, ma la gru, con il suo battito d’ali, impedirà all’assenza di farsi realtà.
Quando ero bambina, un brutto male era il modo in cui i grandi chiamavano il tumore, un mostro che negli anni più recenti ha iniziato ad assumere il volto sempre più familiare di persone a noi vicine. Era il male innominabile, un’entità, un demone, una diagnosi che sapeva di condanna. Oggi non è più così.
Tutti, in fondo, abbiamo esperienza, diretta o meno, di quella che è, probabilmente, la malattia del secolo. Abbiamo perso affetti, capelli, fame. Imparato un nuovo linguaggio, la lingua del dolore e della cura. Abbiamo sconfitto il mostro o imparato a fronteggiarlo, a guardarlo negli occhi. Addirittura, Raffaella Simoncini lo porta in copertina, gli intitola un libro, gli consente, così, di occupare, anche visivamente, lo spazio che occupa già nella vita di molti. Lo fa con la leggerezza di un origami e il rispetto di chi sa, di chi non edulcora, di chi non cerca pietismi, ma racconta storie, spaccati di vita. Vita che a volte, in malattia, è più viva – e vera – che mai.