C’è un nuovo modo di dire, in UK, che si è diffuso negli ultimi tre anni: brexiting. Vi sarà capitato a una festa di voler andare via prima dell’orario stabilito, quindi di salutare tutti salvo poi intrattenervi ancora un altro po’ nella stanza. Il termine trae origine dalla questione più importante che il Regno Unito sta affrontando negli ultimi anni: la Brexit.
Theresa May, appena ottenuto l’incarico di Primo Ministro nel 2016, a seguito del referendum che ha portato alle dimissioni di David Cameron, affermò che avrebbe traghettato il Regno Unito fuori dall’Unione Europea. A oggi però, a molti mesi di distanza, la via d’uscita non è ancora stata trovata: dall’inizio del 2019, infatti, la May ha sottoposto tre diverse soluzioni – a gennaio, marzo e a maggio –, tutte bocciate dal Parlamento, tanto che l’Europa ha concesso ai territori della regina Elisabetta l’ennesima proroga al 31 ottobre. Ma perché la proclamata scissione è così difficile? Oltre ai vari accordi commerciali e doganali, le complicanze sono dovute anche ai diritti dei lavoratori, che devono comunque essere tutelati e uniformati secondo gli standard comunitari. A essere incerto, inoltre, è anche il destino degli europei in UK e dei britannici in Europa.
Nel 2016, la ripresa del controllo sull’economia è stato uno dei punti principali del leave. Troppo manovrata da Bruxelles secondo alcuni – e non solo in terra d’Oltremanica, la politica commerciale è legislazione esclusiva dell’Unione Europea per evitare che ogni Paese difenda esclusivamente i propri interessi personali. Di conseguenza, il Regno Unito, facendo parte dell’Organizzazione Internazionale del Commercio, non può attuare contratti di cui si scoprano beneficiarie soltanto le proprie casse.
A tal proposito, una delle problematiche più sostanziali è il confine tra le due Irlande, motivo per cui la May avrebbe pensato di attuare un backstop: una soluzione di sicurezza che permetta un confine non rigido in cui l’Irlanda del Nord rimarrebbe nel mercato europeo e nell’unione doganale senza ripristinare controlli alla frontiera con l’Irlanda invece europea. In un certo senso dunque, l’Irlanda del Nord resterebbe comunque parte dell’UE, ma ci sarebbe una perdita di integrità da parte del Regno Unito, motivo per cui il Partito Unionista Democratico del Paese, partito su cui si regge la maggioranza di governo, è tra coloro che hanno rifiutato fortemente questo tipo di soluzione.
Oltre all’Irlanda del Nord, anche la Scozia è sul piede di guerra: l’80% degli scozzesi infatti nel 2016 votò a favore dell’Unione Europea. Lo stesso Eurodeputato Alyn Smith ha affermato che il miglior accordo Brexit è il no Brexit. A non piacere è la Clausola 11 del Brexit Bill, il testo che sancisce l’attuazione della decisione britannica di lasciare l’UE. Non appena usciti dall’Unione Europea, infatti, tutti i poteri precedentemente delegati a Bruxelles verrebbero centralizzati, anche se solo temporaneamente, a Downing Street, tornando così appannaggio di Londra. Nonostante sia stato offerto a Cardiff, Belfast ed Edimburgo un ruolo di consulenti nelle decisioni, la Scozia ha richiesto il potere di veto nel caso in cui qualche decisione possa esserle non gradita, ma l’Inghilterra ha respinto la mozione. Per questo motivo, appare sempre più prossimo un possibile ritorno al voto per l’indipendenza del Paese.
Ma non sarebbe più semplice optare per un secondo referendum? Nonostante la maggioranza del Parlamento non ci sia per riandare alle urne, questa volta, molti dei membri lo vorrebbero vincolante e non consultativo come quello del giugno 2016, il che significa che se dovesse vincere nuovamente il leave, il Regno Unito sarebbe automaticamente fuori, senza avere alcuna possibilità di accordarsi con l’Unione Europea. Il problema, dunque, non sarebbe affatto risolto.
Così, in attesa di una soluzione, lo scorso 26 maggio i britannici hanno dovuto votare per le Elezioni Europee e scegliere i 73 deputati da mandare a Strasburgo. Nel mentre, lo scorso 7 giugno la May ha consegnato le dimissioni da Primo Ministro, precedentemente annunciate il 24 maggio in una commossa e solenne conferenza stampa. Attualmente, quindi, la residenza al 10 di Downing Street risulta sfitta.
A sostituirla come Primo Ministro e come capo dei Tories, l’ala conservativa del Parlamento, potrebbe essere Boris Johnson, colui che insieme a Neil Farage volle fortemente l’uscita dall’Unione e che venne accusato di aver fatto propaganda con false notizie per persuadere le persone al leave.
Nel 2016, infatti, sostenne che il Regno Unito inviasse 350 milioni di sterline a settimana all’UE, notizia smentita subito da fonti ufficiali, ma che Johnson, nonostante sapesse che la cifra fosse esageratamente alta, continuò a diffondere per fare propaganda nelle campagne inglesi. Un esperto nel creare falsità insomma: durante la sua breve carriera da giornalista infatti, venne cacciato dal Times per aver inventato totalmente alcune dichiarazioni. Subito dopo la vittoria del leave, inoltre, affermò che, nonostante si fosse battuto fortemente per la causa, non volesse comunque avere il ruolo di Primo Ministro e lasciò la bega alla May. Tuttavia, dovesse essere scelto lui adesso, la soluzione di Johnson, che di statura assomiglia a Trump e di carattere ricorda Salvini, sarebbe quella di uscire direttamente dall’Unione Europea senza un accordo, rifiutando così di pagare i 39 milioni di sterline di costo del divorzio.
L’uscita senza accordo creerebbe problemi a livello doganale e commerciale e non darebbe garanzie né ai propri cittadini né ai tanti stranieri presenti sul territorio. Al tempo stesso, porterebbe al crollo del valore della sterlina e a tasse e costi elevati che rischierebbero di costringere le aziende rimaste a spostare le loro sedi altrove. Già dal 2016, a causa di questa incertezza economica e politica, il PIL britannico è crollato del 2% e secondo le proiezioni del Niesr rischia di crollare maggiormente: se dovesse confermarsi il backstop e l’unione doganale attuale il calo sarebbe del 2.8%, ma se si dovesse optare per un no deal, scelta prediletta dal probabile nuovo Primo Ministro, si avrebbe una perdita del 5.5%, pari a 140 miliardi di sterline.
È evidente, ormai, che la Brexit, una vera e propria alzata di testa, sembra costare al Regno Unito più cara di quanto previsto.