Dalla mezzanotte di sabato scorso, il Regno Unito non fa più parte dei Paesi membri dell’Unione Europea. Brexit è compiuta, quasi quattro anni dopo l’esito del referendum sul remain or leave, Londra saluta Bruxelles in via definitiva.
Tanto si è detto, ancor di più – forse – si è scritto sull’uscita del regno di Sua Maestà dalla Comunità istituita a Roma nel 1957, eppure, l’unica sensazione che sovrasta qualunque altra è quella di aver vissuto una giornata storica, una data – 31 gennaio 2020 – che farà il pari con un altro momento chiave per l’Europa e il mondo intero, il 9 novembre 1989, la caduta del Muro di Berlino.
Accade così quando cambia la geografia di una nazione o di un continente: gli effetti si spandono nel tempo a venire. Impossibile, a oggi, affermare con certezza cosa comporterà la Brexit sullo scacchiere internazionale, quel che è certo è che le conseguenze – di qualunque natura – peseranno ben più di un passaporto biometrico da portare in tasca volando verso l’Inghilterra. Per quanto drammatica, la probabilità di non poter più guardare a Londra come meta dove sognare il proprio futuro rischia di essere nulla di fronte al Risiko che potrebbe scatenarsi in caso di future tensioni politiche o ipotesi belliche.
Ciò che il Regno Unito riacquista non è, infatti, la sovranità millantata dal ciuffo biondo di Johnson o il controllo su persone, confini e mercati, anche se è grazie a questa propaganda di bassa lega che Brexit ha fatto breccia nelle campagne inglesi, nei piccoli borghi all’ombra di Westminster. Ciò di cui Londra mira a riappropriarsi è la sua identità, l’immagine ormai sbiadita di potenza mondiale assoluta, colonizzatrice e padrona, tutto quanto lasciato per strada dal maestoso Impero Britannico, oggi ridotto all’organizzazione intergovernativa degli Stati indipendenti (53) – comunque diretti da Marlborough House – del Commonwealth.
Di tutti i Paesi membri dell’UE – non a caso – l’Inghilterra è l’unica che non se n’è mai sentita davvero parte. Tutto in UK è rimasto così com’era prima dell’accordo siglato dalla Comunità nel 1973, dalla moneta alla guida a destra, passando per l’utilizzo del sistema imperiale britannico – a riprova di quanto appena affermato – come unità di misura, anziché del più pratico e funzionale sistema decimale. E se quanto elencato non fosse abbastanza a determinare la distanza che i sudditi della Corona non hanno mai smesso di difendere verso l’Europa continentale e i suoi abitanti, basta passeggiare per Regent Street o, ancor più, fare un giro nei borghi iconici dell’isola per rendersi conto delle differenze con gli altri Stati. Ogni cosa è diversa, un sentore che sa anche emozionare.
Non è semplice, comunque, disegnare l’aspetto che assumeranno il Regno Unito e l’Unione Europea successivamente alla Brexit. Come detto, gli effetti si misureranno nel tempo, come a Berlino, dove l’entusiasmo per la riunificazione nascose i drammi della disoccupazione e della dilatazione della forbice delle differenze sociali. Certo, è difficile credere che i mercati subiranno le conseguenze più gravi, che Londra e Bruxelles non troveranno un accordo che favorirà lo scambio delle merci in entrambe le direzioni anche dopo il prossimo 31 dicembre. Così come appare assai improbabile che gli europei residenti sul suolo britannico saranno considerati indesiderati e viceversa per gli anglosassoni in Francia, Germania, Italia, e così via. Anzi, il processo di separazione porterà il Regno Unito a selezionare le risorse che potranno abitare i celebri cottage dal tetto spiovente puntando su alta specializzazione, come già accade negli USA.
Tuttavia, non sono soltanto i rapporti con gli ex colleghi del Parlamento Europeo a tenere in ansia il governo britannico. Il rischio incombente, per Downing Street, è quello di dover gestire i delicati legami con Scozia e Irlanda del Nord, ampiamente in disaccordo con la presa di posizione determinata dal voto combinato con il Galles e l’Inghilterra. Edimburgo e Belfast chiedono, infatti, di rivedere la propria posizione, con la capitale delle Highlands smaniosa di una prossima separazione e un pronto ritorno a Bruxelles. Non a caso, le braccia tese verso i comunitari che ancora intendono conservare la loro residenza nella terra dei castelli e di Loch Ness sono già il simbolo in cui i popoli democratici cercano ispirazione.
Il ricordo delle sanguinose guerre civili ai confini delle due Irlande è ancora troppo recente e violento, e nessuno, Boris Johnson compreso, ha certamente interesse nel tornare a far parlare di UK per le rimostranze del popolo represse con la forza dei militari.
A tal proposito, suona stonato il no di Westminster a un nuovo referendum sull’autonomia delle cornamuse, come richiesto dal partito indipendentista scozzese, istanza – invece – oltremodo legittima se si considera che il quesito, nel 2014, è stato posto quando la situazione internazionale non era la stessa nella quale si trova costretta attualmente e nulla faceva pensare a un addio di Londra ai patti del 1973.
La motivazione offerta dai conservatori – abili ad associare il risultato delle elezioni politiche dello scorso dicembre alla volontà dei britannici di portare a termine la Brexit e non altrettanto uniformi nell’analizzare il giudizio della Scozia, in massa a favore del SNP di Nicola Sturgeon – appare, così, incomprensibile e disonesta. Una partita, quest’ultima, che giura di aver appena cominciato a muovere le sue mosse.
Dalla mezzanotte di sabato scorso, la Brexit è realtà, il party organizzato da Johnson e Farage ha avuto modo di cominciare. Resta l’Unione Europea e la sua promessa incompiuta, il sogno di una maxi-federazione di libertà, pace e diritti che ha troppe volte disatteso le sue aspettative, prestando così il fianco al ritorno in auge dei nazionalismi sul suolo di un continente ancora lacerato dalle loro ferite, un’eco che dovrebbe fare paura anziché suscitare attrazione. Resta la malinconia che ha accompagnato milioni di cittadini di fronte alle immagini della bandiera ammainata a Bruxelles allo scoccare del nuovo giorno.
Brexit verrà ricordata come il rammarico per un progetto che comincia il suo naufragare oppure come la sveglia di cui l’Europa aveva e ha necessariamente bisogno. Sarà il tempo a dirlo e a noi il compito di imparare a leggerlo. Come a Berlino, oltre trent’anni fa, quando la storia cambiava per sempre. Come è successo ancora una volta.