La notizia ha ormai fatto il giro del mondo: domenica, migliaia di sostenitori dell’ex Presidente brasiliano Jair Bolsonaro hanno assaltato le principali sedi politiche di Brasilia. Un esercito di figure avvolte in bandiere verdi e gialle ha sfondato le barriere attorno al Parlamento, alla Corte Suprema e all’ufficio presidenziale, riversandosi al loro interno. Finestre spaccate, tavoli rovesciati, computer e stampanti fracassati. Statue e dipinti vandalizzati, seggi occupati, la moquette del Parlamento semi-incendiata. Le bandiere sventolano sui tetti degli edifici conquistati.
Le immagini di caos e distruzione sono ormai ovunque e significano una sola cosa: nella democrazia brasiliana, qualcosa si è rotto. L’occupazione è nata come contestazione del risultato delle ultime elezioni, perse da Bolsonaro contro Luiz Inácio Lula da Silva: parte del Brasile non accetta l’insediamento del neo Presidente ed è convinta che sia il frutto di brogli elettorali. I bolsonaristi hanno scelto di violare i luoghi simbolo della politica brasiliana per dirlo forte e chiaro: non hanno più rispetto per le istituzioni del Paese. Sì, la polizia ha ripreso il controllo delle sedi violate entro la sera dello stesso giorno, ma non sarà così facile riprendere il controllo del Paese. Il neo Presidente ha dichiarato che i manifestanti, da lui definiti fascisti, verranno identificati e puniti per il loro coinvolgimento nell’assalto, ma ha anche annunciato che firmerà un decreto di emergenza che consentirà al governo di attuare qualsiasi misura necessaria per riportare l’ordine a Brasilia. La sua validità sarà fino al 31 gennaio, sintomo del timore di ulteriori rappresaglie.
C’è un paragone imprescindibile da fare: quello con l’attacco a Capitol Hill. Ricordiamo tutti il volto dipinto di Jake Angeli, le sue corna da vichingo, la bandiera a stelle e strisce e l’orda di militanti che lo seguì all’assalto della collina del Campidoglio. Era solo il gennaio di due anni fa e, per la prima volta nella storia delle democrazie costituzionali, un Presidente incitava le sue milizie armate ad assaltare un luogo sacro per la tenuta del Paese. Donald Trump, poche ore prima dell’assalto, aveva espressamente aizzato i suoi sostenitori alla rivolta. Dopotutto, per l’intera durata delle elezioni, l’ex Presidente americano aveva affermato che non avrebbe mai pacificamente concesso la vittoria al suo avversario.
Una frase che trova il suo corrispondente in portoghese, dato che Jair Bolsonaro durante le elezioni ha ribadito che non avrebbe accettato la sconfitta. Se ce ne sarà bisogno, andremo in guerra, era il mantra dell’ex Presidente, le cui tre opzioni erano essere arrestato, essere ucciso o vincere. Una retorica espressamente militare, che ha portato a una campagna elettorale violenta e polarizzata: entrambi i candidati si sono fatti vedere in pubblico solo con il giubbotto antiproiettile e il Supremo Tribunale Federale si è trovato costretto a sospendere i decreti con cui Bolsonaro negli anni ha smantellato lo stato di disarmo del Paese, rendendo l’acquisto di armi facilmente accessibile a chiunque.
Bolsonaro è da sempre considerato il “Trump brasiliano” e come tale ha agito fino all’ultimo. Come la sua controparte a stelle e strisce, l’ex Presidente, dopo circa un mese dalle elezioni, ne aveva ufficialmente contestato il risultato, chiedendone una revisione sulla base di un malfunzionamento nelle macchine del voto elettronico. La richiesta era stata respinta dalla Corte Suprema del Brasile, ritenendola infondata, data la totale assenza di prove a riguardo. Da tempo Bolsonaro stava mettendo in dubbio l’integrità delle istituzioni brasiliane e in particolare del sistema di voto elettronico.
Esattamente come nel cortocircuito americano, le fake news hanno giocato un ruolo fondamentale. La contestazione del Presidente, seppure senza fondamenti, ha dato vita a migliaia di articoli e post in merito a presunte irregolarità del voto ed elezioni truccate. Secondo il Washington Post, cinque degli otto termini più cercati su TikTok nei giorni successivi alle urne hanno riguardato teorie del complotto. Non sorprende in alcun modo, quindi, l’escalation di domenica. Nelle mani di Bolsonaro, come in quelle di Trump, il fiammifero della propaganda si è fatto fascismo. Non c’è stata un’incitazione diretta da parte di Bolsonaro all’assalto delle sedi politiche, ma possono bastare le fake news, le minacce antidemocratiche e le manipolazioni dell’opinione pubblica. La violenza verbale, però, non può essere portata avanti senza conseguenze: l’odio e la polarizzazione si accumulano, crescono, e prima o poi esplodono.
In barba a ogni tentativo di disinnesco, Bolsonaro si è rifiutato di consegnare la fascia presidenziale al suo successore. Un gesto che, per i bolsonaristi, ha avuto un chiaro significato: non c’è riconciliazione, Lula non sarà mai il nostro presidente. L’ala di destra ha cominciato a chiedere a gran voce un intervento militare per rimuovere Lula dal suo incarico, bloccando strade e autostrade, commettendo piccoli atti di vandalismo e accampandosi fuori la sede del Parlamento. Il nuovo Ministro della Difesa, José Múcio Monteiro, le aveva definite espressioni democratiche, sicuro che si sarebbero via via esaurite autonomamente.
Una valutazione discutibile: il Brasile, durante le elezioni, è stato una polveriera. A ogni manifestazione sono stati sequestrati rudimentali ordigni, pistole e coltelli tra le file dei bolsonaristi, ed è stato perfino assassinato un membro del partito di Lula, Marcelo de Arruda. Non c’è mai stata una condanna da parte di Bolsonaro rispetto alle violenze dei suoi sostenitori: non una parola è stata detta dall’ex Presidente riguardo all’uomo che, durante la sfilata trionfante di Lula, ha tentato di avvicinarsi alla Rolls Royce scoperta armato di un coltello e di esplosivo.
Le ultime analisi hanno sottolineato che, in realtà, l’assalto era prevedibile. Su Telegram, Twitter e TikTok, migliaia di sostenitori di Bolsonaro stavano organizzando per domenica la Festa da Selva: in Brasile, “Selva” è un tipico saluto militare e un grido di battaglia. Per essere più discreti, avevano cambiato una lettera, mutando la parola in “Selma”. Per tutta la settimana, su Twitter in Brasile Festa da Selma era stato un trending topic, dunque una delle espressioni più usate e cercate. Per non parlare degli spostamenti: su Telegram i cosiddetti “patrioti” avevano organizzato trasporti di massa da tutto il Paese, facilmente tracciabili. Come mai dunque, le forze di polizia non si sono accorte di nulla? E perché i manifestanti sono riusciti a violare le principali sedi democratiche con una facilità disarmante? E, soprattutto, come mai il neo Ministro della Difesa ha deciso di considerare i bolsonaristi dei simpaticoni seguaci del Mahatma Gandhi? La polemica rispetto alle responsabilità delle forze dell’ordine – da sempre vicine a Bolsonaro – è accesissima in Brasile e meriterà un’importante indagine da parte del nuovo esecutivo.
Torniamo però alla star, al protagonista indiscusso della giornata: Jair Bolsonaro. L’ex Presidente, poche ore dopo l’assalto, ha condannato con un tweet le azioni dei suoi sostenitori, affermando che le manifestazioni pacifiche, secondo la legge, fanno parte della democrazia. I saccheggi e le invasioni di edifici pubblici come quelli di oggi, così come quelli praticati dalla sinistra nel 2013 e nel 2017, sono illegali. Subito dopo, ha rifiutato la sua responsabilità in merito ai fatti accaduti: nego ogni accusa avanzata, senza prove, da parte dell’attuale capo dell’esecutivo del Brasile. A stento riesce a pronunciare la parola “presidente”, Jair Bolsonaro, ma continua a considerarsi innocente. Vuole “uscire pulito” dalla situazione, comportandosi come se l’assalto non avesse alcun contesto.
E le destre nostrane non sono da meno. Il sempre online Salvini, storico amico di Bolsonaro, non ha trovato tempo per commentare la vicenda. Ma ancor più interessante è il messaggio di condanna da parte di Giorgia Meloni, che recita: quanto accade in Brasile non può lasciarci indifferenti. Le immagini dell’irruzione nelle sedi istituzionali sono inaccettabili e incompatibili con qualsiasi forma di dissenso democratico. È urgente un ritorno alla normalità ed esprimiamo solidarietà alle Istituzioni brasiliane.
Ancora una volta, il nostro Presidente non vede matrici e non parla mai di Bolsonaro. Quanto accade in Brasile, quelle immagini di violenza e distruzione non hanno storia né origine. Pare che, una mattina di una domenica qualsiasi, dei pazzi scatenati abbiano deciso di assaltare le sedi istituzionali del Paese. Non si parla di comunicazione e performance o dell’istigazione alla violenza. Non si parla della fomentazione di un odio sovranista, xenofobo e suprematista. Non si parla di fake politics che sostituisce la realtà, dei diritti schiacciati, del mancato rispetto delle costituzioni. Non se ne parla perché si dovrebbe riaprire un discorso sul fascismo, e sulla destra estremista che sogna la dittatura.
Il silenzio, però, non può cancellare in alcun modo la responsabilità di Bolsonaro, vero mandante della vicenda. L’ex Presidente cerca di “uscire pulito” dalla situazione, ma sulle sue mani resta il sangue degli indigeni, dei militanti di Lula, e da ora della stessa democrazia del Brasile.