Domenica 2 ottobre il Brasile è andato alle urne per eleggere il suo nuovo Presidente della Repubblica, rinnovare il Parlamento, scegliere i rappresentanti delle assemblee locali e i governatori dei singoli Stati. Alla presidenza c’erano diversi candidati, ma la partita è stata a due: da un lato del ring c’era Jair Bolsonaro, dall’altro Luiz Inácio da Silva. Il primo è l’attuale Presidente del Brasile, un politico d’estrema destra con una retorica violenta e autoritaria. Il secondo – meglio noto come Lula – ha governato il Paese tra il 2002 e il 2010 con il Partido do Trabalhadores, ed è tornato in campo dopo l’annullamento delle sue condanne per corruzione.
La campagna elettorale è stata dura e ha portato a un risultato inaspettato: nessuno dei due candidati ha raggiunto la soglia necessaria per essere eletto al primo turno. Bolsonaro ha raggiunto il 43.24% e Lula il 48.38%, anche se i sondaggi vedevano il 51% in tasca a quest’ultimo e l’attuale Presidente già sconfitto. Invece, il Brasile dovrà tornare a votare il 30 ottobre e fare la sua scelta decisiva.
Il Paese si trova in bilico tra due visioni antitetiche del mondo a un bivio cruciale. Gli stessi candidati sono coscienti della polarizzazione di queste elezioni: Bolsonaro l’ha chiamata una lotta tra il bene e il male, e Lula una disputa tra democrazia e autoritarismo, tra lo sviluppo e il miglioramento della qualità di vita dei brasiliani e un governo autoritario. E in effetti la campagna elettorale è stata un vero un campo di battaglia, con i suoi caduti e le sue violenze.
Entrambi i candidati si fanno vedere in pubblico solo con il giubbotto antiproiettile e il Supremo Tribunale Federale si è trovato costretto a sospendere i decreti con cui Bolsonaro negli anni ha smantellato lo stato di disarmo del Paese e reso l’acquisto d’armi facilmente accessibile a chiunque. Il Presidente d’estrema destra continuava a incitare l’elettorato a comprare armi – è scritto nella Bibbia! – e a mimare a tutti i comizi una pistola con il pollice e l’indice, “scherzando” sullo sparare ai membri del Partido do Trabalhadores. Cosa che è avvenuta di lì a poco.
Lo scorso luglio Marcelo de Arruda, membro del partito di Lula, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco da un sostenitore di Bolsonaro e il Presidente continua ad affermare che se ce ne sarà bisogno, andremo in guerra. Dopotutto, oltre a lavorare sulla liberalizzazione delle armi da fuoco nel Paese, Bolsonaro in questi anni si è accaparrato il sostegno dell’esercito concedendo promozioni e benefici strategici. Le milizie saranno – come sempre – al suo fianco nel caso di un colpo di Stato, opzione ritenuta estremamente probabile dinanzi a una sconfitta. Bolsonaro, à la Trump, sostiene che il sistema di voto elettronico del Brasile non è affidabile, e che la sinistra stia cospirando per destituirlo in maniera illegittima. A sua detta, le tre opzioni per queste elezioni saranno essere arrestato, essere ucciso o vincere, e i suoi sostenitori – incitati dalla sua retorica – hanno più volte attaccato quelli di Lula lanciando rudimentali ordigni esplosivi, feci e urina.
Le popolazioni indigene sono nell’occhio del ciclone. L’escalation di violenza di questa campagna elettorale ha avuto un impatto disastroso su di loro e sulle loro terre. Sin dall’inizio, il governo Bolsonaro si è opposto nettamente alle popolazioni native, indirizzando l’odio e il malcontento popolare nei loro confronti. Il Presidente uscente ha convinto il suo elettorato che il diritto ancestrale di questi popoli sulle loro terre, sancito dalla Costituzione del 1988, fosse un blocco per lo sviluppo economico del Paese. Bolsonaro vede la Foresta Amazzonica – il polmone verde del mondo – come un’enorme fonte di ricchezza, svendibile all’agroindustria e agli allevatori di bestiame. Così, attraverso il Marco Temporal – dicitura introdotta dal decreto legge 490 – ha imposto alle comunità indigene di provare di aver occupato le loro terre prima del 5 ottobre 1988, giorno in cui fu promulgata la Costituzione.
Si tratta di un tranello: i popoli indigeni difficilmente sono in grado di procurare documenti ufficiali capaci di testimoniare che effettivamente erano lì trentatré anni fa, dato che sono i nativi del Brasile e non si aspettavano che questo concetto basilare venisse messo in dubbio. Bolsonaro ha così potuto derubarli facilmente delle loro terre e permettere l’infiltrazione di grileiros (accaparratori di terre), garimpeiros (cercatori d’oro) o madeireiros (taglialegna illegali).
Solo tra il 2020 e il 2021 ben 13mila chilometri quadrati della foresta sono stati distrutti e i tassi di deforestazione non sono mai stati così alti. Le imminenti elezioni hanno messo ancora più fretta alle mafie della deforestazione, che hanno cominciato ad appiccare incendi anche di giorno. Quest’anno i numeri sono stati da record: si parla dell’83% degli incendi in più rispetto allo stesso periodo del 2018, il numero più alto mai registrato dal 2013. La paura di Lula spinge a muoversi rapidamente, senza più cautela, per accaparrarsi più fette di torta possibili.
Sotto il governo Bolsonaro, più di 300 persone sono state uccise nelle lotte per difendere e salvare i terreni in Amazzonia dal disboscamento illegale. Proprio a un mese dalle elezioni, è stato assassinato Janildo Guajajara, uno dei Guardiani dell’Amazzonia. Si tratta di un gruppo indigeno che pattuglia la foresta per scovare e allontanare i madeireiros, e ben sei dei suoi membri sono stati uccisi senza che nessuno degli assassini venisse arrestato o punito.
Si è parlato di genocidio indigeno e non a torto: non solo gli attivisti nativi vengono eliminati uno a uno dalle mafie della deforestazione, ma le popolazioni indigene tutte stanno perdendo le loro case e la loro cultura, legata a doppio filo alla foresta. Proprio per questo, sono tantissimi i nativi che sono passati dall’attivismo alla politica: ben 171 indigeni si stanno candidando per cariche statali o federali, un record senza precedenti. Lula ha raggruppato i popoli dell’Amazzonia al suo fianco, promettendo la creazione di un Ministero delle Popolazioni Indigene e forte del fatto che la deforestazione, sotto la sua presidenza, fosse al minimo storico.
La deforestazione però non riguarda “solo” gli indigeni – senza sminuire il significato di un vero e proprio genocidio – ma tutti noi. L’Amazzonia è il polmone verde del mondo intero e le sue condizioni avranno una portata globale. Il Think Tank Climate Focus ha pubblicato un rapporto secondo il quale la deforestazione sta andando avanti a un ritmo tale da impedire al pianeta di prevenire i cambiamenti climatici. Sì, la scelta che il Brasile compirà a fine mese segnerà le mie prospettive di vita, come quelle di chiunque, anche se sono seduta dall’altra parte del mondo. E qui aggiungo che non è giusto che un Paese disponga di un bene dell’umanità a suo piacimento, senza rispetto per la sua conservazione, solo perché si trova nei suoi confini. Gli ecosistemi vitali per il nostro pianeta dovrebbero essere protetti da meccanismi sovranazionali basati su dati scientifici, a prescindere dagli Stati, dalle elezioni e dai poteri privati.
Ma come è possibile questa situazione? Come può un Paese dare il 43.24% dei voti a un uomo che sta portando il pianeta al punto di non ritorno? Purtroppo, la disinformazione e la propaganda la fanno da padrone. Come esseri umani, non siamo portati a processare situazioni eccessivamente complesse. Per chi vive nei grandi centri urbani, ecosistemi, animali e piante sono oggetti lontani e nebulosi, che non attivano alcun tipo di empatia. Anche il disastro ecologico resta un dato freddo e teorico: possiamo anche processare l’entità della crisi con il nostro ipotalamo, ma il nostro cervello non attiverà l’amigdala, responsabile di paure ed emozioni. Solo le minacce immediate innescano i nostri sensi e ci fanno sudare freddo: quella del nemico, ad esempio. Se un nemico ha una faccia nitida e riconoscibile – nella retorica bolsonarista è quella indigena, quella omosessuale, quella del diverso – è molto più semplice instillarne l’odio e la paura, e parlare alla pancia degli elettori. Caldo improvviso, tempeste o desertificazioni sono concetti vaghi e distanti e non evocano nessun istinto primitivo di difesa.
Insomma, come sempre, il modo migliore per occultare il vero nemico è crearne un altro ad hoc, prefabbricare un capro espiatorio. L’odio e la paura vincono anche sulle rivendicazioni dei propri diritti: con il governo Bolsonaro, le fasce popolari si sono viste togliere il pane da sotto i denti. Nel 2014, il Brasile era finalmente uscito dal gruppo di Paesi che a livello mondiale soffriva la fame. Questo risultato era stato raggiunto dal governo Lula grazie a una serie di interventi forti ed efficaci nella lotta alla povertà e alla fame nelle fasce più a rischio, grazie a programmi di fondi sociali e di sostegno economico diretto come Fome Zero, che aveva l’obiettivo di rafforzare l’agricoltura e prevenire le gravidanze precoci, Bolsa Família, che invece forniva aiuti finanziari alle famiglie più povere a patto che garantissero la scolarizzazione e la vaccinazione dei figli, e Luz Para Todos, che rendeva universale l’accesso all’energia elettrica.
Tutti questi programmi sono stati aboliti. Durante i suoi quattro anni di amministrazione, Bolsonaro ha riformato le pensioni, cancellato i sostegni diretti e abolito le tasse ai ceti più ricchi, riportando la povertà nelle strade del Brasile. Ben 33 milioni di persone sono in condizioni di insicurezza alimentare seria, e se a queste si sommano le persone che soffrono un’insicurezza alimentare media e lieve si arriva a 125 milioni di brasiliani che hanno problemi a mettere il piatto a tavola.
La pandemia da Covid-19 ha peggiorato la situazione: Bolsonaro, dopo aver negato l’entità del virus ed essersi rifiutato di vaccinarsi, ha preso in giro chiunque indossasse una mascherina e non ha messo il sistema sanitario brasiliano nelle condizioni di funzionare per una crisi simile. Il Brasile è salito al secondo posto al mondo per il numero di morti – più di 680mila – e metà della popolazione che vive nelle grandi città ha perso il lavoro.
La situazione delle favelas è ormai drammatica, per non parlare di quella delle comunità indigene. Altro che minoranze: i disoccupati sono ormai 27 milioni, quasi un terzo della popolazione economicamente attiva, e 36 milioni sono i lavoratori informali, sottopagati e senza protezione sociale. La situazione è critica anche per le fasce imprenditoriali e più abbienti del Paese, dato che il Brasile è caduto in piena recessione economica.
Sì, Bolsonaro non ha favorito nemmeno i turbocapitalisti, che hanno beneficiato molto di più degli otto anni di mandato di Lula. In quel periodo, anche grazie al contesto economico favorevole, ci fu uno dei più notevoli periodi di crescita della storia del Brasile. I risultati ammutolirono chi credeva che i programmi di sostegno diretto dell’ex Presidente avrebbero stroncato l’economia del Paese. Insomma, anche ragionando egoisticamente, senza riguardo per il futuro del pianeta o per le minoranze etniche, non c’è fascia sociale che il governo Bolsonaro non abbia danneggiato.
Ma allora, Bolsonaro, chi lo sta votando? Solo i ricchi negazionisti? Sarebbe facile poter ragionare in questi termini. Vorrebbe dire che ci troviamo in un mondo molto più semplice, lineare e gestibile di quello in cui ci troviamo. Ovviamente, Bolsonaro ha un vantaggio tra i ceti più ricchi – che evidentemente temono più le tasse delle pandemie mondiali – e tra gli evangelici più conservatori, che già segnarono la sua prima vittoria. Ma le statistiche hanno fallito e l’elettorato di Bolsonaro è risultato molto più largo dei pronostici.
Prima di tutto, il passato di Lula non sembra del tutto dimenticato. Il Partido do Trabalhadores rimase coinvolto nella “tangentopoli brasiliana”, una serie di inchieste per corruzione legate alla Petrobras, la grande azienda petrolifera pubblica del Paese. Condannato a nove anni, e poi a dodici in appello, Lula restò in carcere per oltre un anno perdendo la possibilità di candidarsi nuovamente. La sua condanna fu annullata nel 2021 dalla Corte Suprema brasiliana, poiché il giudice che lo aveva condannato – poi nominato Ministro della Giustizia da Bolsonaro – non era stato imparziale.
Nonostante la riabilitazione, la figura di Lula viene ancora connessa a un evento torbido e sporco. Bolsonaro si è posto al contrario come uomo forte, intransigente e cristallino, capace di riportare l’ordine e la disciplina nel Paese. Il suo piglio militare e il suo tono machista riescono ancora ad attrarre parte della popolazione, in modo istintivo. Inoltre, con una manovra last minute, il governo Bolsonaro ha ripristinato una serie di sussidi per le fasce più povere: un’operazione chiaramente elettorale, mirata a rubare gli elettori di Lula. Non ci crederete mai ma, nonostante i quattro anni di disperazione e fame, ha funzionato.
Ovviamente solo in parte – la maggioranza dei ceti non abbienti continua a essere dalla parte di Lula – ma abbastanza per portare il Paese al ballottaggio. Ma perché le fasce popolari dovrebbero sentirsi rappresentate da Bolsonaro, un ex militare che li ha calpestati fino a pochi mesi fa, e non da Lula, un lustrascarpe che ha perso un mignolo lavorando in fabbrica e in passato si è fatto in quattro per loro?
Perché in realtà, amici miei, la retorica fascista piace. Inutile nasconderlo rivangando i tempi dei movimenti operai: le idee reazionarie attecchiscono anche tra le fasce popolari, quelle che ne vengono più svantaggiate. Questo perché non c’è una reale percezione di cosa sia stato il governo Bolsonaro e di cosa comporterà un nuovo mandato.
Propaganda e disinformazione la fanno da padroni, e annebbiano la realtà delle cose. La paura, la voglia di un ritorno al rigore morale dei tempi andati parlano alla pancia di un elettorato che non comprende la complessità di tutti gli altri fenomeni sociali. Un elettorato che sì, sceglie, ma senza consapevolezza. E non è un problema limitato lì giù, in America Latina, lontano da noi. È una situazione comune in gran parte delle democrazie contemporanee. Altro che vecchi, altro che maschi bianchi etero cis: siamo tutti possibili vittime di propaganda e mistificazione, perché nessuno di noi è più avvezzo al dibattito e al confronto.
André Singer, portavoce del primo governo Lula, ha affermato che una delle caratteristiche del lulismo è stata quella di creare uno Stato abbastanza forte per ridurre le disuguaglianze, ma senza rimetterne in discussione le strutture. Lo Stato è rimasto un’entità dominante, accentrata e onnipresente. Le fasce sociali sono rimaste al loro posto, anche se rafforzate. Non c’è stato alcuno stravolgimento culturale e strutturale, e le élite economiche si sono presto tranquillizzate, finendo per appoggiare l’ex Presidente. Il popolo brasiliano è stato il beneficiario passivo di una serie di riforme calate dall’alto, ma è rimasto popolo, una massa apolitica e priva di individualità. Perciò, quando è stato privato del suo leader carismatico, incapace di cavarsela da solo, è corso a inseguirne uno nuovo.
È necessario tornare a essere protagonisti, a essere politicamente vivi: informati, competenti, consapevoli del mondo che ci circonda. Solo la gestione della cosa pubblica, l’indipendenza e il dibattito non polarizzato possono restituire ai cittadini la consapevolezza delle loro scelte. Esattamente come le popolazioni indigene che, deluse e abbandonate da chiunque, hanno cominciato a sorvegliare la loro foresta da sole. Hanno creato una militanza e un attivismo feroce, impossibile da ingannare e corrompere. E ora sono scese in campo.
Se ne avrà la possibilità – e qui in redazione lo speriamo fortemente – Lula dovrà ricostruire un Paese sulle macerie. Stavolta, per dare un futuro solido al suo Brasile, la rivoluzione non dovrà essere solo economica, ma culturale e sociale.