Bla bla bla. Ogni volta che Giorgia Meloni parla di blocco navale, nella mia testa un suono onomatopeico copre le sue parole. Bla bla bla. Chiacchiericcio. È questo, in effetti, tutto ciò a cui si riduce la propaganda della leader di Fratelli d’Italia in materia di immigrazione, ma non solo: in parole al vento che poco o nulla hanno di attinente con la realtà.
Perché se a proposito di migranti tanto si dice e poco si fa in termini di tutela di esseri umani, le convenzioni, le leggi, il diritto – per fortuna – esistono tra tutti i nonostante. Anche nonostante una deputata in carica, in politica da praticamente tanti quanti anni ha chi scrive, e in corsa per governare l’Italia che mente così spudoratamente.
Praticare un blocco navale significa muovere guerra a un altro Paese. Si tratta, infatti, di un’operazione militare che impedisce con la forza l’entrata o l’uscita di una nave da uno o più porti di uno Stato coinvolto in un conflitto. A disciplinarla è l’articolo 42 della Carta dell’ONU che ne parla come di una misura che il Consiglio di Sicurezza può adottare solo per mantenere o preservare la pace e la sicurezza nazionale, casi dunque di legittima difesa. Quindi, a meno che Giorgia Meloni non voglia aggiungere un ulteriore conflitto allo scacchiere mondiale o sperare che le organizzazioni internazionali sostengano la follia del suo programma politico, pare evidente che la proposta sia piuttosto campata in aria.
A chi le fa notare l’impossibilità di una tale soluzione, però, la leader di Fratelli d’Italia spiega per sommi capi come la metterebbe in pratica, sostenendo che per governare i processi migratori si debba impedire del tutto ai barconi di partire. Sì, ma come? Ogni individuo non è libero di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, come recita l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo? Giorgia Meloni propone, allora, un accordo con gli Stati di provenienza dei migranti. Un blocco navale consensuale, insomma: più da vicino niente di molto diverso da ciò che l’Italia attua da tempo e che chiamiamo in modo meno roboante.
Pensiamo alla Libia. Dal 2017, per volere dell’ex Ministro dell’Interno Marco Minniti e dell’impalpabile Premier Paolo Gentiloni, Roma dirotta milioni di euro nelle casse di Tripoli affinché quest’ultima contenga l’emorragia umana che si riversa nel Mediterraneo. Parliamo del Memorandum che tacitamente si rinnova di anno in anno e che nessun Presidente del Consiglio, da Conte (1 e 2) a Draghi, senza dimenticare i Ministri Matteo Salvini e Luciana Lamorgese hanno pensato di dover rimodulare o – unica cosa sensata – cancellare del tutto. Un accordo tra le parti, questo sì, che consiste nel finanziamento della guardia costiera libica e dei centri di detenzione nei quali vengono rinchiusi coloro che tentano la traversata.
In pratica, grazie al supporto economico dell’Italia e alla complicità silenziosa degli Stati europei, i migranti intercettati nel Mediterraneo vengono riportati indietro per essere immediatamente incanalati in reclusioni arbitrarie, sistematicamente sottoposti a tortura e sfruttamento nella totale impunità. I sopravvissuti hanno raccontato, spesso, la realtà di quelli che dobbiamo chiamare lager, luoghi di sospensione del diritto dove le guardie possono tutto, persino violentare le donne e costringerle ad avere rapporti sessuali in cambio di acqua, cibo o della loro libertà. Torture e altri maltrattamenti sono all’ordine del giorno, così come condizioni di detenzione crudeli e disumane, estorsioni e lavori forzati. Alcuni hanno riferito di essere stati sottoposti a perquisizioni invasive, umilianti e violente. Nei centri non sono rari i tentativi di suicidio o le morti dovute alla negazione di cure e il ricorso alle armi sui detenuti inermi.
«L’intera rete dei centri di detenzione per migranti libici è marcia fino al midollo e deve essere smantellata» denunciano da anni le principali organizzazioni non governative. L’Italia, invece, ha scelto di rinforzarla e addirittura di legittimarla con la Direzione per la lotta alla migrazione illegale (DCIM), un dipartimento del Ministero dell’Interno che, lo scorso anno, ha integrato due nuovi centri sotto il proprio controllo pur conscio degli abusi perpetrati tra quelle mura ai danni di centinaia di migranti.
Attualmente, gli unici ad avere accesso ai centri di detenzione sono i funzionari delle agenzie ONU, e in maniera molto saltuaria. Eppure, persino quest’estate – più precisamente il 29 luglio scorso – le Commissioni congiunte di Difesa ed Esteri hanno votato, ancora una volta, il Decreto Missioni e, quindi, il supporto italiano, contenuto nella scheda 47, ai guardacoste libici. Questo nonostante il governo fosse dimissionario e nonostante i tragici numeri che nessuno legge.
A oggi, tra gennaio e luglio 2022, nel Mediterraneo hanno perso la vita 180 migranti, 648 risultano dispersi, mentre gli intercettati e riportati in Libia risultano 11057, tra cui 422 minori. Tuttavia, il sostegno alle cosiddette missioni di salvataggio – le stesse per le quali il Premier Mario Draghi ha ringraziato le autorità locali – continua e anche le risorse destinate alle operazioni navali che non prevedono il recupero dei migranti in acqua sono aumentate: di 17 milioni quelle destinate a Mare Sicuro e di altri 15 quelle per la missione Irini (dati 2021).
L’Italia e altri Stati membri si impegnano, inoltre, a fornire assistenza materiale, compresi motoscafi, alla guardia costiera libica e stanno lavorando per istituire un centro di coordinamento marittimo nel porto di Tripoli, finanziato principalmente dal Fondo fiduciario dell’UE per l’Africa. Ignorano, invece, che 1.3 milioni di persone, in Libia, un Paese che non riconosce la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e in cui sono state accertate sistematiche violazioni del diritto, hanno bisogno di assistenza umanitaria. I fondi messi a disposizione sono aumentati di anno in anno, raggiungendo quasi 800 milioni complessivi in appena un triennio. L’obiettivo non è solo quello di fermare i migranti, ma anche di rafforzare l’influenza italiana in Libia, attenti però a non chiedere conto delle migliaia di vite mancanti all’appello o a ignorare la richiesta lanciata dalle ONG di istituire una commissione di inchiesta che indaghi sul reale impatto delle risorse investite nel Paese nordafricano e sui naufragi nel Mediterraneo.
Come pensa, dunque, Giorgia Meloni di trovare un accordo che soddisfi così accuratamente i responsabili del traffico di esseri umani nel Mediterraneo, dei lager sulla terraferma, del business sulla pelle dei migranti? Quale Paese farebbe circondare i propri porti da navi straniere, potenziali nemiche? In Libia, da febbraio ci sono due Primi Ministri che sostengono di essere i legittimi capi di governo. A chi si rivolgerebbe la donna, madre, cristiana?
Ipotizziamo un blocco navale: se l’intento è impedire la partenza dei barconi, dovremmo posizionare le navi italiane in prossimità delle coste libiche, rischiando così l’invasione del territorio di un Paese sovrano. In mare aperto, invece, le possibilità sarebbero due: la prima è che i migranti intercettati ignorino l’ordine di stop e rischino un intervento della Marina militare. Per una serie di ovvi fattori, però, quest’ultimo non potrebbe avvenire senza causare danni a cose e, soprattutto, persone. Se infatti, come spiega il comandante De Falco, il blocco navale è un atto di guerra, «esso ha un inevitabile punto di caduta: le regole d’ingaggio devono contemplare anche l’ammissibilità in concreto di dare attuazione all’impedimento del passaggio, attraverso la facoltà, in extrema ratio, di aprire il fuoco sulle persone, pure se vi siano tra di loro bambini di sei mesi. È chiaro che nessuno darà mai l’ordine di uccidere, ma è altrettanto chiaro che l’impedimento al passaggio può causare la perdita di vite umane». E, per quanto l’Europa sia discussa e discutibile, che anche in questo caso resti inerme appare piuttosto inverosimile.
La seconda possibilità è che i migranti intercettati si lascino catturare dalle nostre autorità, dunque vengano portati in Italia perché la stessa Convenzione di Ginevra, articolo 33, afferma che a un rifugiato non può essere impedito l’ingresso sul territorio né può esso essere deportato, espulso o trasferito verso territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate. Considerato che, secondo le Nazioni Unite, la Libia non è un Paese sicuro, le persone che scappano non potrebbero essere rimandate in Africa. C’è, poi, il principio di non-refoulement, sancito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e tradotto in norma nazionale nel cosiddetto Testo Unico sull’Immigrazione e nell’articolo 10 della Costituzione italiana, che vieta qualsiasi forma di allontanamento forzato verso un Paese non sicuro per tutte le persone, indipendentemente se siano state riconosciute rifugiate e/o se abbiano formalizzato o meno una domanda diretta a ottenere tale riconoscimento.
Il blocco navale, insomma, viola almeno tre tra trattati e convenzioni internazionali, nonché il più umano diritto del mare. Non è un caso che nel programma di centrodestra non venga apertamente menzionato: quella ipotizzata da Giorgia Meloni è un’operazione irrealistica, irrealizzabile e illegale.
C’è, infine, un altro fattore di cui FdI non parla: il notevole dispiegamento di mezzi militari, attivi ventiquattro ore al giorno per il pattugliamento di migliaia di chilometri di costa a spese impensabili anche per il più Paperone dei Paesi europei. Se i fondi ci sono, o potrebbero esserci, perché non utilizzarli per lavorare a un sistema di accoglienza diffuso a terra? Perché non aprire i canali di ingresso ufficiali in Italia per evitare, davvero, i morti in mare? Soluzioni concrete esistono: sono i corridoi umanitari, per costruire rotte sicure e avere contezza di chi si muove; sono i permessi di soggiorno, per consentire ai migranti di potersi spostare con maggiore facilità e di essere meno ricattabili da chi se ne ciba per accrescere il proprio business.
A un elettore un po’ meno superficiale, insomma, il bla bla bla di Giorgia Meloni suona più come un’offesa all’intelligenza che una dichiarazione politica. Ancora una volta, l’immigrazione torna a essere l’argomento più caldo per la politica italiana, che non ha nulla da proporre, in concreto, a un Paese che è praticamente sull’orlo di una guerra civile e, di certo, non a causa dei migranti.