Diffidate delle cittadine americane dove si conoscono tutti e non succede mai niente. Il tredicenne Finney Shaw (Mason Thames) e sua sorella Gwen (Madeleine McGraw) sono infatti preoccupati per le misteriose sparizioni di ragazzini, sempre più frequenti, che stanno avvenendo nella loro comunità. Lo chiamano il Rapace, il rapitore. Non sanno come operi, cosa faccia a quei bambini o perché lo faccia. Le indagini sono in corso ma sembra che, più di tutti, sia Gwen ad avere maggiori informazioni, grazie a dei precisi e strani sogni. Fin quando non tocca anche a Finney. Fin quando non sarà lui a dover fronteggiare il Rapace, da solo, chiuso in uno scantinato con soltanto un materasso e un telefono nero disconnesso. Un telefono che però, inspiegabilmente, suona.
Questa la trama di Black Phone, il nuovo thriller/horror da poco uscito in sala per la regia di Scott Derrickson. Un film che è l’adattamento cinematografico del racconto del 2004 The Black Phone, inserito nella raccolta Ghosts e scritto da Joe Hill. Per chi non lo sapesse, Hill è il figlio del maestro del racconto horror: Stephen King. Sono infatti palesi i riferimenti allo stile di King – protagonisti bambini, storie bizzarre – e in particolare ad alcuni suoi capolavori, primo fra tutti It.
Perché recarsi al cinema a guardare Black Phone? In primis abbiamo tre garanzie: Scott Derrickson, la Blumhouse Production e Ethan Hawke. La regia di Derrickson aveva già avuto modo di illuminarci precedentemente, con pellicole quali lo splendido Sinister (2012, sempre con Ethan Hawke come protagonista), il meno riuscito ma comunque singolare Liberaci dal male (2014) o il più recente Doctor Strange (2016). Black Phone utilizza senza dubbio qualche espediente soprattutto registico di Sinister, anche se non ottiene gli stessi grandiosi risultati di un film che aveva dato prova di come si possa riuscire brillantemente a coniugare i generi thriller e horror, inquietando lo spettatore con una storia potentissima e senza bisogno di inutili e fastidiosi jumpscare.
I jumpscare rappresentano, per l’appunto, una paura chimica, che può farti sobbalzare se il tuo corpo non è preparato a quel tipo di situazione – il bicchiere che cade, l’amico idiota che ti fa bu dietro l’angolo – ma che dopo finisce lì, senza lasciarti davvero nulla di concreto. Diverso se sono usati in modo da contestualizzarli nella trama. L’inquietudine invece è ben diversa. Quella ti prende la mente, si ripercuote sul fisico e diamine se non te la ricordi nel tempo la sensazione.
Con Black Phone prosegue la volontà di Derrickson di portare sullo schermo un genere che coniughi sapientemente il thriller (un mistero o un’indagine poliziesca, ad esempio) e l’horror con l’elemento soprannaturale. L’inquietudine del realismo della vicenda, in questo caso la suspense a causa dei rapimenti, è quindi coadiuvata dalla sospensione dell’incredulità nello spettatore, che accetta che qualcosa vada al di là delle sue convinzioni, in questo caso il telefono nero. E poi c’è Jason Blum che con la sua casa di produzione ha dato effettivamente una svolta alla concezione che da sempre abbiamo del genere horror. Dove c’è Blumhouse, c’è (il più delle volte) qualità, c’è rivoluzione, c’è sperimentazione. Pellicole quali Sinister, Insidious, Scappa – Get Out, Cam, L’uomo invisibile, ci hanno fatto comprendere che l’horror non è soltanto quel tipo di film fine a se stesso, per staccare la mente e spaventare i ragazzini durante la stagione estiva. L’horror può essere una critica sociale (L’uomo invisibile), può lasciare un messaggio, può far riflettere, può essere candidato agli Oscar (Scappa – Get Out).
L’ultima garanzia è ovviamente Ethan Hawke nei panni del Rapace. Un personaggio spaventoso, di cui non si sa nulla e che si aggira con alcune maschere che definire inquietanti è dire poco. La capacità attoriale di Hawke si dimostra proprio a causa di queste maschere le quali, impedendogli di mostrare il volto per la quasi totalità del film, lo hanno portato a giocare tutto sui gesti, sul tono della voce e sul linguaggio del corpo in generale. Il modo di fare estremamente sopra le righe – forse un po’ troppo, a volte –, l’ossessione per i bambini e i palloncini neri che usa per i suoi rapimenti non possono far altro che riportarci senza se e senza ma alla figura del malefico pagliaccio Pennywise. Un personaggio di cui non ci è dato sapere nulla e forse va anche bene così. Come ci ricorda l’home invasion The Strangers, quando i protagonisti implorano gli psicopatici che hanno fatto irruzione in casa loro per ucciderli di sapere il motivo per cui fanno tutto questo, loro rispondono candidamente: «Perché eravate in casa».
Purtroppo, se non fosse per il Rapace, il film non avrebbe la stessa potenza, poiché il resto dei personaggi è poco caratterizzato e non permette una grande immedesimazione. Più che Finney, il risalto ce l’ha sua sorella, che con un certo girl power e il suo dono risulta maggiormente d’impatto, ma non quanto ci si aspettava dall’introduzione. Si mostra in impermeabile giallo – altro riferimento a It – intraprendente e coraggiosa e facciamo i complimenti alla giovane ed espressiva attrice che farà senz’altro strada. Due bambini uniti da un rapporto intenso e molto dolce, destinati a fronteggiare prima un padre violento – la scena della violenza domestica è da pelle d’oca – e poi uno psicopatico. Interessante è il fatto che il film, al di là dello stampo kinghiano, mostri una violenza per niente edulcorata, anzi, piuttosto grafica e cruda.
Derrickson mantiene il suo stile autoriale grazie a una regia di alto livello, che fa da trave portante e controbilancia una trama non particolarmente innovativa. Passando da movimenti di macchina lenti e carichi di tensione a una camera fissa e angosciante, lo spettatore si sentirà realmente lì, al posto di Finney e a un passo dal pericolo. A domandarsi se quella porta lasciata socchiusa sia una dimenticanza o una trappola.
Purtroppo il film pecca, oltre a una storia poco originale e personaggi non approfonditi, di un finale eccessivamente rapido ed elementi introdotti che sembravano importanti ai fini della trama e invece non lo sono o non verranno sviluppati. Un film promosso con poco più della sufficienza, che merita di essere visto ma senza troppe aspettative e con la consapevolezza che non si tratti di una delle migliori opere di Derrickson. Magari, passato il periodo, può essere addirittura che qualcuno se ne dimentichi. Ma l’immagine del Rapace seduto sulla sedia, la camera frontale, fissa, le gambe divaricate e simmetriche, la cinghia in mano e quegli occhi che sembrano fissare proprio noi dietro la maschera, quell’immagine no, forse ce la ricorderemo eccome.