Lo chiamano il sogno americano, quell’ideale di società in cui ognuno ha diritto a una vita migliore, più giusta, più… uguale. Per alcuni è il sogno del progresso, per altri il sogno dell’inclusione. Per molti, è la possibilità di una scala sociale accessibile a tutti secondo il proprio impegno, la sconfitta della casta inamovibile e granitica. È il sogno del successo, di quella terra di opportunità sconfinata che da sempre, nell’immaginario comune, rappresentano gli Stati Uniti, una bandiera a stelle e strisce sinonimo di democrazia. Ma solo nel vocabolario capitalista.
Già alla fine degli anni Venti, in quel periodo noto come l’età del jazz, Il grande Gatsby di Francis Scott Ftizgerald ne aveva mostrato le contraddizioni. Nel libro, quell’ideale era la luce verde sinonimo di Daisy, la donna amata, la riva opposta metafora delle speranze, degli inganni e delle illusioni del protagonista. Un ideale labile e delicato che si scontrava con la brutalità della realtà, la stessa che ha poi ridotto il sogno americano in frantumi. Cocci che la cronaca di questi giorni ci sta lanciando addosso riportandoci crudelmente con i piedi per terra.
Dalla morte di George Floyd dello scorso 25 maggio, gli USA sono scenario di una guerriglia urbana che è necessità di farsi ascoltare, di pretendere giustizia e verità. L’uccisione dell’afroamericano voluta dagli agenti locali ha, infatti, scatenato l’insofferenza della comunità di colore – ma non solo – stanca di non vedersi riconosciuta diritti e uguaglianza, negli Stati Uniti come in gran parte dei cosiddetti Paesi civilizzati. Le città, da Minneapolis a New York, sono invase da migliaia di manifestanti uniti in un unico grido: Black Lives Matter. Le vite nere contano. Ma non ne avranno diritto finché quel grido non sarà una sola voce, finché il razzismo non verrà riconosciuto come un problema dei bianchi, quelli che lo esercitano per affermare una supremazia autoproclamata che nega qualsiasi forma di vivere civile.
È questo, in fondo, che a una settimana da quei tragici 8 minuti e 46 secondi – tanti quanti il ginocchio di Derek Chauvin è rimasto a schiacciare il collo di George –, chiedono i dimostranti in più di 100 città statunitensi (149 stando al Times) e in tantissime altre in tutto il mondo, dal Canada all’Australia. Un movimento compatto, orizzontale e inclusivo che può dare vita a una vera rivoluzione, oggi più che mai necessaria e urgente, soprattutto in vista delle Presidenziali di novembre.
L’ascesa di Donald Trump ha infatti cambiato la storia contemporanea, accelerando un processo già in atto ma pericolosamente concretizzatosi con il suo insediamento alla Casa Bianca. Non a caso, la sterzata a destra che l’elezione del Tycoon ha dato al mondo ha significato il rinvigorimento di un’ideologia di stampo fascista che si riverbera anche in Europa e che il Presidente stesso non ha mai rifiutato, nell’espressione più pura di quella mentalità schiacciasassi che gli Stati Uniti portano avanti da sempre. Contro i neri, i messicani, gli afghani, gli iracheni, contro tutti coloro a cui dichiarano guerra per assicurare la sopravvivenza a se stessi e al sogno – questo sì – bellico americano. Il movimento che sta riempiendo le piazze, dunque, rischia di avere molto più di una responsabilità, molto più del desiderio di una nazione finalmente giusta. Rischia, se capace di coordinarsi in un’azione politica concreta, di mutare le sorti del futuro più prossimo.
La rabbia che adesso brucia anime e città non può spegnersi, diventare ennesima occasione sprecata. Molti la paragonano a quella che seguì l’assassinio di Martin Luther King e, forse, può essere a suo modo assimilabile. Di certo, non ha parallelismi negli anni più recenti. A mancare, tuttavia, è una leadership vera, una figura che sappia riunire sotto il proprio nome le battaglie che la piazza rivendica da tempo immemore. Un leader che da quella piazza venga, che la conosca, che l’abbia vissuta. Di certo, non un Presidente che si nasconde in un bunker o un candidato – d’opposizione, tra l’altro – che si rifà a un politically correct ormai stantio: «All’atto di protestare non dovrebbe mai essere permesso di mettere in ombra il motivo per cui protestiamo», ha affermato Joe Biden invitando alla calma. Ma come si può pretendere la calma da una comunità che ha visto un compagno morire sotto il peso di un ginocchio negato da un’autopsia? Una comunità che ancora, nel 2020, viene sterminata per il colore della pelle? Come può la calma essere prerogativa di chi non ha diritto a diritto alcuno?
«Come presidente, aiuterò a condurre questa conversazione e, cosa più importante, ascolterò. Manterrò l’impegno che ho preso con il fratello di George, Philonise, che George non sarà solo un hashtag […] Per favore, state al sicuro. Per favore, prendetevi cura l’uno dell’altro». Ancora una volta, la macchina della propaganda si muove più veloce della politica vera e, al contrario di ogni promessa, non ascolta. Non è ha mai avuto l’interesse. Basterebbe prestare attenzione alle parole della giovane attivista Tamika Mallory, incazzata perché gli Stati Uniti, la sua casa, continuano a rifiutarla.
«La ragione per cui gli edifici bruciano è perché questa città, questo stato preferiscono preservare il nazionalismo bianco e la mentalità suprematista bianca piuttosto che arrestare, incolpare e aiutare a condannare i quattro agenti che hanno ucciso una persona nera. Questo è quello con cui dobbiamo avere a che fare. Qui non si tratta solo di pochi poliziotti, non si tratta del poliziotto buono o cattivo, qui si tratta di Ahmaud Arbery colpito e ucciso da due uomini bianchi per strada in Georgia, di Breonna Taylor uccisa in casa sua, questo succede a New York, dove abbiamo lottato contro la polizia che in nome del distanziamento sociale è andata molto vicina a uccidere persone nere. Siamo in uno stato di emergenza. Non possiamo guardare a questo episodio come se si trattasse di un caso isolato, la ragione per cui gli edifici bruciano non è solo per il nostro fratello George Floyd. Bruciano perché qui in Minnesota stanno dicendo alle persone di tutta la nazione “quando è troppo è troppo”, e noi non siamo responsabili delle follie inflitte sulla pelle della nostra gente perpetrate dal governo, dalle istituzioni americane e dalle persone che ricoprono ruoli di potere. […]
I giovani sono arrabbiati ma c’è un modo facile per fermare tutto: fermare e arrestare i poliziotti, tutti i poliziotti, non solo alcuni, non solo a Minneapolis, ma accusarli in tutte le città d’America dove la nostra gente viene ammazzata. Siate coerenti con quando dite che l’America è una terra libera per tutti. Non è stata libera per la gente nera e siamo stanchi. Non parlateci di saccheggio, siete voi gli sciacalli. L’America ha saccheggiato la gente nera, ha saccheggiato le terre dei Nativi Americani, saccheggiare è quello che avete sempre fatto, è da voi che abbiamo imparato la violenza. Quindi, se volete che facciamo di meglio, siate voi a fare di meglio».
La ragione per cui gli edifici bruciano è nelle parole più pacate ma altrettanto efficaci di Kareem Abdul-Jabbar: «La comunità nera vive da anni in un palazzo ardente, venendo soffocata dal fumo mentre le fiamme si fanno sempre più vicine. Il razzismo in America è come la polvere nell’aria: sembra invisibile, anche se ti sta soffocando, fino a quando non permetti al sole di entrare. Allora, ti accorgi che è tutta intorno a te. Finché saremo in grado di mantenere viva quella luce, potremo fare pulizia e spazzare via quella polvere ovunque si posi. Ma occorre rimanere vigili, sapendo che resterà sospesa nell’aria. [..] La maggiore preoccupazione della comunità nera in questo momento è se i loro figli, mariti, fratelli e padri saranno uccisi da poliziotti o aspiranti tali semplicemente perché si trovano in strada a camminare, a correre o a guidare. O se essere nero vuol dire rifugiarsi a casa per il resto della loro vita perché il male del razzismo che infetta la nazione è più letale di ogni altra emergenza.
Ciò che dovreste vedere quando volgete lo sguardo verso i neri che protestano in quest’epoca sono persone arrivate al limite non perché chiedono che siano riaperti i bar e o i centri estetici, ma perché vogliono vivere. Vogliono respirare. E la cosa peggiore è che si pensa che noi dobbiamo giustificare la nostra indignazione ogni volta che il calderone ribolle. Circa settanta, anni fa Langston Hughes si chiedeva, nella sua poesia Harlem, cosa succede a un sogno rimandato? Forse affonda come un carico pesante oppure esplode? Cinquant’anni fa, in Inner City Blues, Marvin Gaye cantava: Il modo in cui manipolano la mia vita mi fa venire voglia di urlare. E oggi […] vogliono toglierci la voce, rubarci il respiro. Dunque, ciò che vedete quando volgete lo sguardo verso i manifestanti neri, dipende da dove vi trovate: se siete in quel palazzo ardente o piuttosto lo guardate dallo schermo della tv con una vaschetta di pop-corn».
Entrambi, Mallory e Abdul-Jabbar – e come loro tanti altri –, hanno risposto a Trump e a Biden con la forza di una motivazione che la politica non conosce. Che non vuole conoscere. Il sogno americano ha, oggi, l’opportunità di diventare veramente tale, di rendere gli Stati Uniti e il mondo intero quella terra di opportunità fino a ora soltanto sperate. Comprendere l’urgenza della piazza, dei palazzi che bruciano, della rabbia di un fratello brutalmente ammazzato, lasciando la retorica a una classe dirigenziale che non può rappresentarci, è il solo modo di agire. Anche in Italia, dove la situazione è migliore finché ci costringiamo a tenere le tapparelle abbassate. La polvere è a Minneapolis, è qui, è ovunque. Muoviamoci. Magari, per una volta, emulare gli USA non sarà stato un errore.