«Nessuno ha mai potuto dirlo finora ma “Benvenuti in galera”»: così esordisce Silvia Polleri in una delle cene tenute al ristorante In Galera, da lei fondato nel carcere di Bollate per offrire una possibilità di lavoro e reinserimento sociale alle persone detenute. Benvenuti in galera è anche il titolo del documentario di Michele Rho – figlio di Silvia Polleri – arrivato negli ultimi giorni nelle sale e che racconta di questa esperienza unica e virtuosa, affrontando così i temi della detenzione e soprattutto delle persone che scontano una pena in carcere.
Al centro il tema del lavoro: in base agli ultimi dati diffusi, solo il 35% delle persone detenute lavora, spesso a tempo parziale o ridotto e, nella maggior parte dei casi, solo all’interno degli istituti. Eppure, stando all’ordinamento penitenziario, non solo il lavoro è individuato come uno degli elementi principali del trattamento rieducativo – per quanto ci sarebbe molto da dire sul significato oramai anacronistico di questo concetto – ma si stabilisce anche che esso sia assicurato a ciascun condannato, salvo i casi di impossibilità.
L’Associazione Antigone ha di recente definito il lavoro “il grande assente del carcere”, insieme alla formazione professionale che consentirebbe a chi sconta una pena almeno di acquisire competenze da utilizzare una volta all’esterno. Questo ci dà l’idea di quanto possa essere ambita l’occasione di lavorare in una cucina o addirittura in un vero ristorante a contatto con persone che vivono la loro quotidianità fuori. E così nel documentario si assiste ai colloqui che la signora Silvia fa alle persone detenute che si propongono per lavorare, raccontando spesso le proprie vite e le motivazioni che le hanno portate a delinquere. Una cosa è chiara: a Silvia non interessa conoscere il reato commesso e, anzi, per rendere più utile il suo intervento a Bollate, preferisce assumere persone condannate a un periodo di detenzione lungo, così da poter intraprendere un percorso completo.
Un detenuto non è mica un reato che cammina, si sente ripetere spesso durante il documentario: una frase che sembra banale, quasi scontata, eppure non è per nulla così. Chi è detenuto porta con sé uno stigma sociale di cui si libera difficilmente anche una volta fuori dal carcere. Dunque, da un lato la pena non offre alcuno strumento reale di reinserimento sociale, contravvenendo al fine costituzionale assegnatole, e per di più chi entra in carcere ne esce peggiorato, come in una vera e propria scuola criminale, tornando nella maggior parte dei casi a delinquere, come dimostra l’altissimo tasso di recidiva – quasi l’80% – rilevato nel nostro Paese.
Uno stigma che le persone recluse sentono addosso, anche chi lavora da In Galera spesso lo avverte nelle domande insidiose e indelicate di ospiti che probabilmente pensano di essere in un circo. «Sono venuti a vedere le scimmiette» dice lo chef Davide che è stato scelto per guidare la cucina di Bollate per la sua grande esperienza e che ora ancora vi lavora pur avendo riacquistato, almeno in parte, la sua libertà. «Cosa abbiamo di diverso da loro, non abbiamo due occhi, due gambe, due braccia…» continua, all’ennesima domanda di un ospite che ha appena chiesto al cameriere che lo serve «E tu per cosa sei dentro?».
È chiaro che chi ha l’ardire di queste domande non solo non ha rispetto della persona che ha di fronte, ma soprattutto la sovrappone totalmente al reato commesso, con una mentalità che è tra le più comuni nella nostra società. Il mancato reinserimento sociale, lo stigma delle persone detenute, il loro abbandono e la loro alienazione sono solo alcuni dei problemi enormi che il carcere porta con sé, e di cui certi dati sono la dimostrazione lampante: basti pensare che sono già quasi trenta le persone che si sono tolte la vita tra quelle mura, senza considerare le decine di atti di autolesionismo quotidiano, nel tentativo estremo di far sentire le proprie grida d’aiuto. Spesso chi compie questi gesti non dovrebbe essere in carcere, il (non) luogo della malattia e dell’abbandono, in cui la salute mentale non è altro che un miraggio, riducendoci all’estrema medicalizzazione.
In una così terrificante cornice si sono raggiunte nuovamente le 60mila presenze, superando di gran lunga la capienza regolamentare, oltre che quelle effettiva, con paurosi passi indietro per l’Italia, tornando alle condizioni inumane, degradanti e di insalubrità che le sono costate severe condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo. È qui che emergono sempre più episodi di violenza configurabili come tortura e in questo stesso luogo anche le persone che vi lavorano sono sempre più soggette a episodi di burn out.
Le storie di riscatto raccontate in Benvenuti in galera sono dispiegate totalmente, come se il regista – che ha raccontato nei suoi incontri di averne conosciute tante – avesse voluto dare loro un senso di compiutezza che spesso la detenzione non restituisce, mettendo al centro le persone, le loro vite, i loro desideri. Un altro modo di scontare la propria pena è possibile, ed è più efficace, più umano, insomma migliore. È forse il nostro Stato repressivo a non essere pronto ad accoglierlo.