In ogni suo lavoro, Robert Zemeckis ha esplorato l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia che hanno rinnovato il linguaggio cinematografico alzando l’asticella di tali traguardi in ciascun film a cui abbia messo mano, senza lasciarsene mai dominare e sempre al servizio di storie emozionanti. Anche con questo Benvenuti a Marwen non si smentisce.
La storia vera su cui si basa sembra fatta apposta per un autore come Zemeckis, a suo agio con personaggi fuori dall’ordinario dai talenti incredibili e dalla sensibilità particolare: l’illustratore Mark Hogancamp viene picchiato quasi a morte da alcuni teppisti che in un bar sentono dire, dallo stesso Mark ubriaco, che ama indossare scarpe da donna (dettaglio che fa il paio con la passione di Ed Wood per i pulloverini d’angora e l’intimo femminile nell’omonimo e bellissimo film di Tim Burton). I danni cerebrali riportati gli cancellano la memoria e l’abilità di saper scrivere, ma soprattutto di disegnare. L’illustratore, dunque, si reinventa terapeuticamente come artista creando dei sofisticati diorami (plastici) di un immaginario paesino belga – Arwen per l’appunto – in cui ambienta storie della Seconda Guerra Mondiale di cui è protagonista un suo alter ego in forma di pupazzo, G. I. Joe, di nome Augie, attorniato da uno stuolo di sexy Barbie opportunamente modificate e rivestite con succinti abiti da guerrigliere. Mark fotografa poi i pupazzi in situazioni narrative avventurose con una vecchia Pentax professionale e le foto che ne nascono saranno oggetto di mostre diventando oggetti da collezione.
Detta così sembrerebbe l’ennesima storia di caduta e riscatto che il cinema pesca dai fatti della vita reale per confezionare film edificanti che possano coccolare il lato più sensibile delle anime degli spettatori. Non è così, però, per Benvenuti a Marwen e lo capiamo subito dall’incipit con il quale veniamo immediatamente catapultati nel mezzo di un’azione bellica dell’aviere Augie che precipita con il suo aereo e viene catturato dai nazisti, per poi essere salvato dal drappello delle sue sexy angeli custodi. Osservando bene ci accorgiamo che i personaggi non sono reali ma sono pupazzi snodabili ricreati in CGI (Computer Generated Imagery) dall’espressività più che umana ottenuta con il procedimento di Performance Capture – si registrano le espressioni facciali degli attori con dei sensori applicati sul volto e poi le si animano con il computer ponendole su personaggi fittizi –, già collaudato nei precedenti Polar Express, Beowulf e Christmas Carol, qui portato a livelli di perfezione foto-realistica impensabili fino a qualche anno fa.
La mossa vincente di Zemeckis, innamorato del cinema come narrazione visiva al pari di Spielberg, è stata appunto quella di dare vita alle fantasie di Mark avvalendosi delle migliori tecnologie attuali per ricreare un mondo, quello della mente del protagonista, che sembra rifarsi dichiaratamente all’immaginario di certi serial o film americani di guerra che andavano in voga negli anni Quaranta – Joe il pilota con Spencer Tracy, per esempio – e che vedevano come personaggi principali dei coraggiosi aviatori rigorosamente vestiti con il giubbotto di pelle. Con la grossa differenza che il nostro Augie, invece di stivali o scarponi, indossa scarpe da donna e che invece di essere lui a salvare la bella di turno, viene salvato da uno stuolo di bombe sexy armate fino ai denti che sembrano uscite da qualche film di Tarantino. Benvenuti a Marwen passa disinvoltamente dalla vita reale di Mark alle eccitanti avventure del suo alter ego Augie in un continuo palleggiare tra le due situazioni narrative che non reca assolutamente fastidio, anzi viene risolto con delle soluzioni visive molto eleganti che rendono tali passaggi assolutamente naturali: in questo Zemeckis è un maestro, avevamo dubbi per caso?
Mark – interpretato da uno Steve Carell particolarmente ispirato –, traumatizzato dall’esperienza violenta che lo ha privato di buona parte della sua vita, vive quasi da recluso nella sua casetta, intento a costruire storie con i suoi pupazzi, ed esce solo per lavorare in un fast food o per andare al negozio di modellismo a comprare bambole e scenografie formato Lilliput. Infatti, non nascondiamo che, nel corso del film, ci si ritrova spesso ad aspettare con ansia i momenti in cui dalle situazioni quotidiane della vita dell’illustratore si passi alle fantasmagoriche avventure di Augie e questo rischia di far cadere il lungometraggio in una certa ripetitività. Se non fosse che l’arco narrativo di Mark presenta un’evoluzione interessante, non proprio imprevedibile, ma con degli affascinanti rispecchiamenti psicologici tra ciò che succede nella vita reale e ciò che vediamo accadere nelle sue fantasie e non solo perché le amiche, che per fortuna nel quotidiano non mancano, diventano personaggi del suo mini-esercito di guerrigliere mentre i teppisti, autori dell’odiosa aggressione, vengono trasfigurati in nazisti spietati, ma anche perché ci sono aspetti oscuri della psiche del personaggio – che evidentemente vive una sorta di schizofrenia depressiva – che si incarnano nella figura della strega belga Deja Thoris – nome mutuato dalla principessa marziana dei romanzi di fantascienza del personaggio John Carter inventato da Edgar Rice Burroughs negli anni Dieci del Novecento – che non ha corrispondenze reali nella vita di Mark ma impedisce puntualmente al suo alter ego di avere relazioni amorose con chicchessia. Non diremo oltre per evitare spoiler ovviamente. La vicenda, però, porterà il protagonista ad affrontare i suoi fantasmi anche nel contingente, dando così un senso catartico alla fantasia e all’arte, che in questo caso non sono soltanto fughe dal reale ma veri e propri percorsi di riappropriazione di sé e della propria dignità in un mondo che ha cercato violentemente di strappargliela.
Rfilessione sui meccanismi della narrazione cinematografica e ammiccamenti extra-filmici – si veda per esempio il camion con la scritta Allied, titolo del precedente film dell’autore – costituiscono da sempre uno dei perni principali del cinema di Zemeckis che qui riserva anche una bella sorpresa – auto-referenziale ma molto divertente – ai fan di Ritorno al futuro di cui tacciamo per ovvie ragioni. Mark Hogancamp diventa così l’ultimo outsider nella galleria di personaggi fuori dal comune che hanno costellato quasi tutti i film del celebre regista, da Doc a Roger Rabbit, passando per Forrest Gump, Chuck Noland di Cast away, fino al Whip Wihtaker di Flight e al Philippe Petit di The walk.