Poche settimane fa, la proposta di legge presentata dal PD (prima firmataria Debora Serracchiani) con il fine di tutelare il rapporto tra detenute madri e figli minori e ridurre al minimo la possibilità che i bambini finiscano in carcere con le loro mamme – o, come accade molto più raramente, con i papà – è stata ritirata senza concludere l’iter parlamentare dopo l’approvazione da parte della maggioranza di emendamenti che ne snaturavano le intenzioni.
Si trattava, in realtà, di una riforma già tentata prima dell’elezione del nuovo governo, con primo firmatario il deputato Paolo Siani e riproposta totalmente: nell’ambito dei quattro articoli che la compongono, il più rilevante sembra essere quello che esclude la custodia cautelare in carcere per le donne che abbiano prole di età inferiore ai 6 anni, ammettendola quindi solo in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza ed esclusivamente negli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (ICAM) o in case famiglia protette.
In particolare, rispetto a queste ultime, per la prima volta si era prevista la relativa copertura finanziaria, oltre all’obbligo – e non più la facoltà – da parte del Ministero della Giustizia di stipulare con gli enti locali convenzioni per individuare strutture idonee a tal fine e l’obbligo da parte dei Comuni dove siano inserite le case famiglia di collaborare al necessario reinserimento sociale delle donne che lì hanno espiato la propria pena.
Simili disposizioni avevano chiaramente il fine prioritario di salvaguardare il benessere psicofisico del minore e la sua educazione che risente del contesto detentivo. Le case famiglia protette, infatti, a differenza degli ICAM che, pur se con forme di sorveglianza attenuata e peculiari, sono strutture gestite dall’Amministrazione penitenziaria, sono strutture di accoglienza extracarceraria e dunque assimilabili a luoghi pubblici di cura e assistenza. Queste ultime permetterebbero inoltre, anche a chi non ha un alloggio, di scontare la propria pena nella forma di una misura alternativa alla detenzione, agevolando il mantenimento delle relazioni familiari. Le case famiglia protette sono infatti, in base alla legge, collocate in luoghi in cui risultino facilmente accessibili i servizi sociali e socio-assistenziali utili sia al minore che ai genitori, riproducendo inoltre una vita quotidiana ispirata a modelli familiari. Fondamentali risultano le esigenze di riservatezza e intimità, ospitando poche famiglie e gli spazi dedicati alle attività dei bambini.
Ciononostante, la maggioranza ha forse ritenuto che simili disposizioni di legge potessero intaccare il percorso oramai avviato di regressione in termini di civiltà per il nostro Paese. E così, con un intento meramente punitivo, sono stati introdotti emendamenti che escludessero tutti questi benefici per chi fosse recidivo, compreso il differimento obbligatorio della pena ex articolo 146 del Codice Penale che invece nella nuova proposta di legge vedeva estendersi il proprio ambito di applicazione non solo per i minori di età inferiore a 1 anno, ma anche per quelli che avessero meno di 3 anni e fossero affetti da disabilità, e anche nel caso in cui si trattasse del padre e non solo della madre. Inutile dire quanto una simile previsione incida in un Paese come il nostro in cui il tasso di recidiva raggiunge quasi il 70%, a dimostrazione di quanto il sistema penitenziario, così congegnato, sia assolutamente inefficace e dannoso.
I parlamentari della Lega e membri della Commissione Giustizia Jacopo Morrone e Ingrid Bisa hanno giustificato simili scelte con delle affermazioni raccapriccianti sia dal punto di vista giuridico che umano: «Essere incinta e/o madre di bambini piccoli non può essere il passepartout per le borseggiatrici abituali e professionali per evitare il carcere e continuare a delinquere». E come se non fosse bastato affossare il disegno di legge, Matteo Salvini non ha mancato, dai suoi profili social, di rassicurare i propri elettori al grido di Mentre il PD difende vergognosamente borseggiatrici e delinquenti, la Lega sta dalla parte della sicurezza di milioni di italiani.
Le inesattezze non si contano in simili affermazioni, eppure non sono errori, ma precise scelte, anche lessicali, per creare nuovi nemici dell’opinione pubblica. Se consideriamo i dati aggiornati al 31 dicembre 2022 riguardanti il fenomeno, si tratta di 16 detenute madri – tra carcere e ICAM – con 17 bambini al seguito. Se in generale la detenzione femminile non è caratterizzata da particolare pericolosità sociale, lo è ancor di meno in questi casi per i quali si tratta di criminalità di strada che deriva da disagio, situazioni di povertà, esclusione sociale e tossicodipendenza, verso cui sarebbero necessarie misure preventive e di presa in carico anziché repressione, che però sembra l’unica risposta che i nostri rappresentanti politici riescono a dare.
Lo si fa passare, invece, per un problema di sicurezza nazionale che addirittura riguarda milioni di italiani, compiendo delle storture anche giuridiche: si inverte il naturale ordine tra fattispecie astratta e concreta poiché non è più il precetto legislativo che viene calato nei fatti e li interpreta e si utilizza una fattispecie concreta, una precisa categoria di persone, verso cui si incanala l’odio collettivo utilizzando termini come “borseggiatrici professioniste” che, si intende, utilizzano i propri figli per non finire in carcere. Madri degeneri, quindi, attorno a cui si costruisce una disposizione repressiva ad hoc, in dispregio a qualsiasi principio costituzionale.
Il fine esclusivamente repressivo risulta chiaro anche perché la stessa proposta di legge ritirata prevedeva la limitazione dei benefici in presenza di regimi e reati caratterizzati da un particolare allarme sociale, oltre che nel caso di evasione, riducendo quindi già la portata delle disposizioni e dimostrando così che non esiste alcun allarme di sicurezza nazionale, se non quello che i rappresentanti politici costruiscono ad arte per lasciarci come nemici i marginali. È forse questo il problema di cui i cittadini dovrebbero occuparsi: la mancanza di qualsiasi politica di prevenzione dei reati, di presa in carico dei contesti sociali difficili, di accompagnamento, là dove invece l’unico strumento possibile è diventato quello penale.
La pandemia ci ha dimostrato che esistono delle alternative, che è possibile ridurre il ricorso al carcere, che è possibile svuotare gli istituti e utilizzare strumenti differenti che risultano anche più efficaci, eppure nell’ultimo anno abbiamo vissuto una regressione enorme in termini di civiltà, contribuendo così a costruire una società carcerocentrica e repressiva. Ed è forse questo il problema di portata nazionale di cui dovremmo occuparci.