Non c’è angolo dell’internet, negli ultimi mesi, che non abbia affrontato il tema Baby Reindeer. Per tutti quelli appena atterrati sul pianeta Terra, trattasi di una fra le più note e discusse miniserie Netflix. I motivi sono molteplici: primo fra tutti, è una storia vera – per la precisione autobiografica – e, si sa, le storie vere hanno tutte un altro effetto in termini emotivi. C’è poi la questione trama, qualcosa che difficilmente viene mostrato nei prodotti mediatici: l’abuso e le molestie sessuali su un uomo, per di più da parte di una donna.
Lui è il comico britannico Richard Gadd, nella serie Donny Dunn, che nel 2015 scopriamo vittima di stalking e molestie sessuali da parte di Martha (Jessica Gunning), donna più grande di lui e con svariati problemi psicologici. Avendo a che fare con tale spiacevole situazione, il protagonista avrà modo di guardarsi dentro, ripercorrere drammatici trascorsi e fare i conti finalmente con i traumi del passato. Tratta dall’omonimo spettacolo teatrale, la serie è un flusso di coscienza di Gadd il quale, con sorpresa e non poco turbamento, interpreta nientemeno che se stesso, conferendo alla storia un’impronta ancor più intima. Cruda e spietata al punto giusto, mai retorica o banale. In una parola, umana.
Brillantemente delineata è la relazione tra Donny e Martha, donna abusante ma allo stesso tempo l’unica in grado di leggergli l’animo, l’unica a farlo sentire importante come vorrebbe, perciò anche molto confuso. È evidente che si tratta di una vicenda parecchio dolorosa per Gadd, processata artisticamente nel tempo, ed è per questo che vederla, per quanto sia spesso intrisa di umorismo (amaro), è piuttosto difficile. Specie se qualcuno certe situazioni le ha vissute.
Il maggior punto di forza è senz’altro la scrittura dei personaggi. Sfaccettati, spesso contraddittori e dunque imperfetti, fautori di scelte controverse – lo stesso Donny rende spesso difficile empatizzare con lui – esattamente come in qualsiasi relazione dove non esiste bianco o nero, ma un’infinità di sfumature di grigio. Baby Reindeer o piccola renna, il nomignolo che gli viene affibbiato da Martha, è una serie preziosa proprio per il grigio. Perché getta di fronte allo spettatore la verità sulle molestie, sullo stupro, sul grooming: non esiste la vittima ideale.
Le reazioni umane sono complesse, poliedriche e non esiste un’unica maniera di reagire. Chi viene abusato può non gridare, non dimenarsi, può ridere, sentirsi in colpa, proseguire la propria vita come se nulla fosse, può addirittura tornare più volte dal proprio abusatore, cosa che, al contrario di quanto si crede, non è rara. Tutto questo non lo rende meno vittima. Abbiamo bisogno di rappresentazioni del genere o l’80% di chi subisce non si sentirà mai davvero rappresentato. E qui arriviamo all’altro elefante nella stanza: la violenza sessuale nei confronti degli uomini.
Circondati da prodotti che vedono la donna come vittima e l’uomo come carnefice – non che sia fantasia, statisticamente è così ed è per questo che tale narrazione si prende giustamente maggiore spazio – siamo davvero sicuri che i prodotti mediatici riescano a rappresentare nel modo corretto l’uomo che subisce? Baby Reindeer, a mio avviso, ci è riuscita, complice una storia in prevalenza autobiografica e per la quale, comunque, non era facile esporsi con così tanta verità. Ma resta una perla rara. La nostra società è ancora quella che crede che un uomo non possa essere violentato (a meno che la persona dall’altro lato non sia fisicamente più forte), che non possa rinnegare del sesso altrimenti non è un vero uomo. Insomma, se eterosessuale e di fronte a una donna, è praticamente impossibile che non gli piaccia. Ma sfatiamo qualche mito.
Un uomo non ha sempre piacere a fare sesso, a prescindere da orientamento e chi ha dall’altra parte. Un uomo può essere abusato da una donna e in vari modi. Un uomo può avere un’erezione non voluta, a volte causata anche dalla paura. Un uomo può essere fisicamente più forte ma psicologicamente più debole, plagiato o ricattato. E questo ci porta a una grandissima riflessione ancora difficile da comprendere per molti: l’abuso sessuale non è una questione di genere. È una questione di potere. Che esista in maggioranza l’equivalente donna-vittima e uomo-abusatore è perché, nella storia, a detenere il potere e attuare un predominio nella convinzione di valere di più sono stati sempre gli uomini. Fatte le dovute precisazioni, la rappresentazione mediatica dell’abuso sessuale maschile è ancora parecchio fuorviante.
Una delle tendenze più dilaganti è quella di mostrarla come forma di intrattenimento per ridere. Battute sullo stupro (primo fra tutti quello perpetrato in prigione) o sulle molestie sono presenti nella stragrande maggioranza di serie e film comedy. In Come ammazzare il capo… e vivere felici, ad esempio, il personaggio di Jennifer Aniston molesta e tenta di violentare quello di Charlie Day in continuazione, eppure la cosa è presentata in maniera goliardica. Il fatto che l’umorismo sulla violenza sessuale maschile sia onnipresente e normalizzato (addirittura in show per bambini, vedi Le Superchicche o Casablanca Bugs) dovrebbe far riflettere. C’è alla base una volontà di sminuire tali violenze e l’uomo stesso, rappresentato spesso come goffo, debole, poco virile. La vulnerabilità maschile è una fonte infinita di derisione nelle commedie tradizionali (Duri si diventa) per vari motivi: devirilizza gli uomini, costringendoli a un ruolo stereotipicamente femminile (e non c’è affronto più grande per un uomo che essere paragonato a una donna); li avvicina al concetto di omosessualità, se il carnefice è un altro uomo, e, di nuovo, l’essere paragonati a un uomo gay è un ennesimo affronto.
Chi ce l’ha fatta è la serie tv Outlander, basata sui romanzi omonimi di Diana Gabaldon, ancora in vetta nelle dispute riguardanti i due episodi sul brutale stupro del protagonista (Sam Heughan) da parte del villain (Tobias Menzies). Quest’ultimo, uomo di potere e abituato a usare la violenza sessuale come forma di punizione e predominio, non attua un semplice assalto fisico, bensì utilizza il ricatto in primis e in seguito vari stratagemmi psicologici per avere un rapporto apparentemente consensuale. L’umiliazione e l’angoscia del protagonista sono tali non per lo stupro in sé ma per la consapevolezza di aver corrisposto, di aver avuto persino un orgasmo. Perché tutto era meglio del dolore. Un plauso anche agli episodi (addirittura alle stagioni) successivi dove, al contrario della maggioranza di prodotti mediatici in cui gli stupri sembrano non avere particolari conseguenze a lungo termine, qui vediamo un disturbo post-traumatico ampiamente descritto, dove il personaggio principale rifiuta di farsi toccare persino da sua moglie.
Insomma, alla base di tutto c’è da chiedersi che tipo di messaggi dovremmo aspettarci dai prodotti mediatici poiché sono questi ad avere un impatto sul modo in cui pensiamo all’abuso e alla mascolinità nel reale. Per i centri di accoglienza, numeri verdi e gruppi di supporto, sembra che gli uomini siano praticamente inesistenti. E quando provano a denunciare capita spesso che non vengano creduti, o appunto, derisi. Ciò alimenta un circolo vizioso per cui un uomo difficilmente sporgerà denuncia e se ne continuerà a parlare poco o niente.
Per fortuna il movimento Me Too ha abbracciato anche una buona fetta maschile (fondamentali le testimonianze di attori come Terry Crews o Anthony Rapp) e qualcosa finalmente si muove. Ma la realtà è fatta di rappresentazioni da cui siamo inevitabilmente influenzati e tutti abbiamo bisogno di sentirci rappresentati nel modo giusto. Al fine di validare le nostre storie. Al fine di poter agire e reagire correttamente anche nella vita vera.