Avremo anche noi dei bei giorni: una speranza, un’esortazione, un monito che la prigioniera politica Zehra Doğan rivolge a se stessa e alla giornalista Naz Öke durante le durissime settimane di detenzione vissute nel carcere di Diyarbakir a causa della sua arte e della sua resistenza curda. Una raccolta di lettere, confidenze, pensieri profondi, edita Fandango, che la cronista turca del sito di informazione Kedistan decide di far diventare testimonianza della lotta del popolo curdo e della repressione cui è soggetto.
Le due, pur non essendosi mai incontrate, diventano amiche attraverso il loro scambio epistolare, condividendo confidenze e pensieri, dai più banali ai più intimi. Naz si fa carico dell’arte che Zehra continua a produrre, la fa circolare all’esterno, la conserva, organizza mostre e riporta l’attenzione pubblica su temi troppo spesso dimenticati.
La prigione di Diyarbakir – anche nota come prigione di Ahmed – è tristemente conosciuta per le torture perpetrate ai danni dei prigionieri politici dal regime turco a partire dal golpe del 1980, ma anche come avamposto della resistenza curda e dei combattenti che hanno deciso di sacrificare la propria vita per difendere la loro militanza, la loro appartenenza al popolo curdo, alla lingua in cui chiedono di esprimersi, difendersi, portare avanti le proprie ragioni.
Zehra è stata imprigionata a causa di un disegno, poi diffuso sui social, che riproduceva la città di Nusaybin distrutta dall’esercito turco. Disegno ritenuto poi dai giudici “oltre la critica” permessa: ma Zehra non ha interrotto la sua arte e il suo approccio militante alla stessa. Ritiene fortemente che un artista, per definirsi tale, debba abbracciare una missione, e precisamente quella di far conoscere la realtà, riportare alla mente le ingiustizie e le atrocità che hanno caratterizzato la storia, far riflettere.
La resistenza curda non è solo nei grandi eventi e sacrifici, ma anche nella quotidianità delle prigioniere politiche, alcune delle quali non sanno nemmeno perché sono in carcere, nonostante abbiano visto ridurre la propria vita a quattro mura da un giorno all’altro, private di affetti e libertà. Eppure, la vera libertà di cui il regime vorrebbe privarle, e che però non riesce in alcun modo a intaccare, è la loro libertà di pensiero. E così attraverso l’arte i capelli diventano pennelli, le lenzuola e gli stracci delle tele, l’erba, i cibi, qualsiasi tipo di spazzatura e addirittura sangue ed escrementi sono colori che fanno rabbrividire le guardie della prigione. La forza di volontà è tale che non viene scalfita minimamente dai sequestri del materiale, dai divieti di scrivere, dalla mancata ricezione della posta.
Le lettere sono un bagaglio preziosissimo, così come per Zehra lo è la vita detentiva stessa: ogni capello nasconde una storia di resistenza, ognuno è come la reliquia di una donna ribelle, racconta in uno dei suoi scritti. La condivisione con le altre donne la arricchisce, la rafforza nei suoi propositi e nella sua missione di artista, le permette di riflettere a lungo su temi fondamentali e poi di riportarli nei loro aspetti essenziali alla sua interlocutrice Naz.
Tema fondamentale è il ruolo delle donne, che hanno avuto e possono avere nel ritorno a una società che non sia patriarcale, e che non ne faccia semplici oggetti nelle mani degli uomini. Che permetta loro di liberarsi dalla vergogna dei corpi e dalla repressione delle menti, che non le releghi a ruoli di semplice procreazione, abbandonando invece piaceri e desideri. È proprio ai sogni che si riferisce Zehra in una delle sue lettere quando scrive: “Qui non si può vivere di sogni. Se sogni non ti adatterai mai a questo posto” – mi dicono. In questo caso, non mi adatterò mai al mondo. È da quando sono bambina che sogno. E non si trattava di sogni su cose future e inaccessibili. Per esempio, chiudevo gli occhi e mi avvicinavo alle stelle, oppure mi addormentavo sotto un albero, o ancora contemplavo un fiume. Potevo essere là dove volevo. Certo, tutti i bambini lo fanno, ma io forse ne abusavo un po’. Contemplavo le cose che non volevo vedere, trasformandole nella mia testa. E continuo a farlo.
Del resto, anche questo rientra nei compiti dell’intellettuale, secondo la combattente curda, poiché egli è colui che si oppone strenuamente alle ingiustizie sentendone il dovere, ed è in continua ricerca. È ciò che del resto avviene nella sua quotidianità carceraria, in cui sente di arricchirsi reciprocamente e continuamente grazie al confronto con le sue compagne di prigionia. Certo, nelle lettere, nei disegni e in tutto ciò che riesce ad allegare agli scritti, la vita non è tutta rose e fiori e quella in carcere produce i suoi effetti patologici, consuma anche la più forte delle volontà.
Zehra, intanto, continua a scrivere, a disegnare con colori che cambiano con il sopraggiungere delle stagioni, a intervistare le sue compagne e farne ritratti, a ricevere vicinanza e affetto da chi vive all’esterno, anche lontano, ne condivide le lotte, elabora un fumetto in cui intreccia la sua prigionia alla storia di Diyarbakir.
La vita delle compagne, l’organizzazione del carcere, episodi della storia del popolo curdo diventano strumenti attraverso cui affrontare temi ben più ampi, primo tra tutti la lotta al patriarcato e alla società imperialista in cui siamo immersi, e che condizionano tutta la nostra vita.
Attraverso una raccolta limpida, lineare, chiara, Naz Öke ci permette di fare un viaggio fondamentale, e di farlo attraverso le parole e la vita di chi ha donato tutta se stessa a una causa e continua a portarla avanti strenuamente, dandoci una lezione che non si può sottovalutare. Data l’urgenza di condividere tale esperienza, noi non possiamo che accoglierla, consigliandovi di farne tesoro, e di preservare la preziosa convinzione che ci anima: avremo anche noi dei bei giorni.