Il 14 dicembre scorso, dopo tredici anni dalla prima pellicola, ha debuttato al cinema Avatar: la via dell’acqua, sequel del capolavoro visivo di James Cameron uscito nel 2009. L’esplosione di colori e computer grafica promessa anche da questo secondo capitolo della saga Na’avi, però, non basta a sovrastare le accuse di rappresentazione stereotipata e razzista delle popolazioni indigene.
Se già nel 2009 aveva suscitato qualche protesta, oggi, guardare al film di Cameron solo come a un capolavoro della cinematografia è forse ingenuo, dinanzi al reiterarsi delle stesse narrazioni, della stessa manchevole attenzione nei riguardi delle istanze indigene e su un terreno di discussione critica più pronto a riceverle anche grazie a un vocabolario che tredici anni fa era certamente meno capillarmente diffuso.
L’espressione appropriazione culturale è ormai inclusa di frequente nelle discussioni sulla produzione di intrattenimento hollywoodiano e, nonostante venga spesso associata in senso soprattutto dispregiativo e di scherno a una certa sensibilità woke, il fatto che appaia come tema e che infiammi il dibattito online e offline è sicuramente un cambiamento in termini della visibilità di un altro presentato come esotico, alieno. Al grido di boicottare Avatar 2 si accompagnano i commenti piccati di chi ci tiene a ribadire che la pellicola sia una finzione e che a scaldarsi tanto per una finzione si finisce con il fare la figura degli stupidi paladini del politicamente corretto. Qualcuno si spinge perfino a dire che Cameron ricalca la popolazione dei Na’avi sul modello dell’indiano d’America proprio perché vuole combattere, mostrandola, la pratica coloniale. Nel caso degli indiani d’America, poi, questo è particolarmente vero data l’importanza che la figura del pellerossa ha sempre rivestito nell’immaginario mitico coloniale del cosiddetto Nuovo Mondo.
Nella letteratura e poi nei film del colonizzatore bianco, i nativi americani compaiono come terreno di conquista, esattamente come i loro territori. Nel prologo del suo bellissimo romanzo d’esordio pubblicato in italiano con il titolo di Non qui, non altrove da Sperling&Kupfer nel 2019, Tommy Orange dedica un lungo brano all’indianità rappresentata dai media: Chiunque altro da noi ci ha definiti e caratterizzati, e continua a calunniarci, sebbene le verità della nostra storia e delle nostre attuali condizioni in quanto popolo siano facilmente consultabili in rete. Abbiamo il triste profilo dell’indiano sconfitto e le teste che rotolano giù dalle scalinate dei templi; li abbiamo in mente, Kevin Costner che ci salva, John Wayne che ci abbatte con la sua pistola, un italiano di nome Iron Eyes Cody che ci interpreta nei film. Abbiamo la pubblicità dell’indiano che piange perché la gente imbratta le strade di rifiuti […] Abbiamo tutti i cliché e le mascotte. La copia di una copia dell’immagine di un indiano in un libro di testo.
Lo sfruttamento dell’immagine stilizzata dell’indiano, la copia della copia di qualcosa che appare reale solo sui libri di storia a scuola è tipica della cultura popolare americana promessa dall’industria dell’intrattenimento. Basta richiamare alla mente un qualunque film western o i classici animati Disney Pocahontas e Peter Pan per rendersi conto dell’assimilazione di tutti i popoli nativi americani a due stereotipi, o meglio a due facce dello stesso stereotipo, afferente più al regno del mito che a quello degli uomini vivi in carne e ossa: il buon selvaggio e il sanguinario.
In Avatar, viene presentata in una cornice fantascientifica costituita da tecnologie avanzatissime e navi spaziali la vicenda del popolo dei Na’avi, nativi di un pianeta occhieggiato dai terrestri per le sue incredibili risorse e chiamato emblematicamente Pandora. Nel mito greco, Pandora (parola che vuol dire tutti i doni) è la donna che scoperchia il vaso contenente tutti i mali del mondo. A evidenziare il legame con la dimensione mitica del racconto coloniale in Avatar, il pianeta Pandora, come la donna, rappresenta la promessa di qualcosa: una promessa che nel suo stesso esaudirsi è foriera di rovina.
I terrestri, costretti alla fuga dal pianeta natio a causa dell’esaurimento delle risorse, trovano sul satellite Na’avi la risposta a tutti i loro problemi: risorse e ricchezze a perdita d’occhio, la promessa di una nuova utopia, di un nuovo inizio. Gli abitanti del posto vengono così poco a poco defraudati dei loro luoghi sacri, costretti ad abbandonare i villaggi e trucidati in nome dell’espansione terrestre nell’arco di tutto il film come inevitabile effetto collaterale dell’incontestabile causa imperialista. Proprio come accadde alle civiltà precolombiane.
Cameron, successivamente alle accuse di plagio ricevute all’uscita del primo film per le somiglianze proprio con Pocahontas, aveva prodotto una dichiarazione firmata all’interno della quale raccontava da dove derivasse la sua ispirazione per la pellicola: l’universo di Pandora è frutto, sì, dell’immaginazione del regista, che lo ha espanso ed elaborato a partire dagli anni Settanta, ma molte delle suggestioni che lo hanno poi portato a realizzare la sua visione nel modo in cui lo abbiamo visto al cinema sono figlie di un’esposizione costante a un determinato racconto di cosa sia essere indigeni, come sottolinea Tommy Orange nel prologo del suo romanzo.
A questo bisogna aggiungere che i Na’avi e la loro storia, nel primo Avatar, vengono perlopiù adoperati come espediente per raccontare il viaggio di redenzione e riscatto dell’eroe di guerra Jake Sully. Gli Avatar che danno il titolo alla pellicola sono, infatti, riproduzioni senzienti degli alieni create in laboratorio (aggiungo come postilla: con chissà quali nefasti esperimenti spietati ai danni della popolazione) che possono essere “controllate” a distanza da un pilota/padrone umano. L’appropriazione terrestre del corpo alieno come strumento per portare a termine i propri scopi è affine alla concezione del nativo americano come simulacro per la legittimazione dell’individualità in soggetto statunitense.
La singolare decisione di mascherare il protagonista da Na’vi facendolo letteralmente entrare nei panni di un abitante nativo di Pandora centra in pieno il concetto di appropriazione culturale. Nell’indossare, in un certo senso, la pelle del nativo di Pandora in una simulazione, il Jack Sully reale non fa altro che giocare a un videogioco. In pratica: gioca all’indiano. È Sully che, vestendo panni Na’avi, salva la comunità indigena dalla minaccia incombente della Resources Development Administration, che su Pandora si occupa di estrarre un prezioso minerale per garantire la sopravvivenza dei terrestri a scapito della popolazione nativa. Sully è il salvatore bianco che aiuta i selvaggi alieni armati di arco e frecce, in comunione con la natura e militarmente ingenui.
Lo sguardo coloniale allo stesso tempo romanticizza e ridicolizza l’esperienza indigena, da un lato presentando i Na’avi come esseri indubbiamente più nobili delle loro controparti umane, in grado di provare empatia e di sentirsi palpitante parte del respiro della foresta, e dall’altro dotandoli di un’incapacità di fronteggiare la cinica minaccia del progredito terrestre, profezia legittima di morte e sconfitta. Una rappresentazione dei nativi che rimane pressoché invariata sin dai tempi dello sbarco di Colombo nelle Americhe e che, a quanto pare, infesta anche le speculazioni di futuro.
Se il messaggio di Cameron voleva essere di condanna rispetto al passato coloniale europeo, se Avatar prova a rivendicare un’alternativa in cui è il colonizzatore a venir rimosso, è pur sempre possibile l’osservazione che i Na’avi riescono a liberarsi del loro male solo dal momento che è un umano a farsi portavoce e braccio armato della loro storia. Appropriandosi dell’identità Na’avi, Sully la rende legittima, degna di esistere ed essere raccontata. Giocare all’indiano gli permette di salvare gli indiani, ma solo perché attraverso di essi il marine salva se stesso.
Il secondo capitolo si incentra sui figli di Sully e l’indigena Neitiry e sulla loro condizione di sangue-misto: né del tutto umani né del tutto Na’avi. Questa condizione di sospensione nell’alterità è spesso indagata nella produzione letteraria nativa americana, che si sofferma sulla ricerca di una circolarità nuovamente completa dell’io a seguito della frammentazione dell’essere sempre “altro da”. La scelta dell’acqua come elemento-simbolo di questo film si collega concettualmente allo sforzo di ricucire la frattura: la via dell’acqua, sangue di vita, che connette ogni cosa in un ciclo di vita e morte che si completa ruotando perennemente su se stesso. Spogliata di una presenza nativa autentica, non stereotipata, la fatica di Cameron (la nuova come la vecchia) rischia di essere la riproduzione di una storia che da secoli le comunità native provano a contrastare.