Nasci da incendiario, muori da pompiere, dicono. È difficile, tuttavia, immaginare Donald Trump spegnere le fiamme sulle quali lui stesso continua a soffiare. Le immagini che, ininterrotte, giungono dagli Stati Uniti d’America dal tardo pomeriggio di ieri non lasciano dubbi: la democrazia è rotta. Le tenebre incombono sulla luce pallida del giorno.
Quelli che i giornali italiani chiamano fan, i sostenitori dell’ormai ex Presidente repubblicano, hanno fatto irruzione presso la sede del Congresso di Washington D.C. Quasi indisturbati, hanno occupato l’edificio, arrivando armati fino alle aule dove si riuniscono le Camere e dove, nelle stesse ore, i parlamentari erano in plenaria per ratificare la vittoria di Joe Biden. Un atto solitamente formale, in democrazia, cui, invece, il Partito Repubblicano e Trump hanno voluto dare un peso inedito nella storia americana. Alcuni senatori, infatti, avevano annunciato che avrebbero contestato il voto. Il Presidente uscente, a sua volta, lo aveva presentato come l’ultima occasione per evitare la vittoria dei dem. Da giorni, dunque, gli elettori rossi avevano iniziato a radunarsi in città, finendo ieri a occupare le scale del Congresso, poi le sue storiche stanze con una facilità decisamente sospetta, persino complice, di quelle forze di polizia così brave a sparare a un nero per il colore della sua pelle, eppure così inermi dinanzi a centinaia di golpisti. Lo chiamano privilegio bianco.
Soltanto poche ore prima, lo stesso Trump aveva invitato i suoi a recarsi a Capitol Hill, la collina del Campidoglio, gettando benzina su un fuoco che arde ormai da quattro anni, da quando, cioè, il Tycoon occupa la Casa che non intende lasciare. Ancora una volta – così come alle prime elezioni quando, pur ottenendo la vittoria, non era riuscito ad affermarsi al voto popolare – aveva ripetuto di non aver perso, di essere vittima di brogli elettorali che, tuttavia, non ha mai saputo dimostrare, perdendo almeno una cinquantina di cause e persino il ricorso alla Corte Suprema. E, così, ore 14:30 locali, i suoi supporter hanno violato uno dei luoghi simbolo della politica americana, il cuore del potere legislativo a stelle e strisce, causando la sospensione della seduta, il ferimento di un numero ancora imprecisato di persone e la morte di almeno quattro tra i coinvolti nelle manifestazioni. All’improvviso – ma, comunque, non senza preavviso – un’apparente anonima Epifania si è trasformata nel giorno del tentato colpo di Stato statunitense. Una data destinata a fare la storia.
Quello che Trump aveva dichiarato sin dall’inizio, chiarendo che non avrebbe mai pacificamente concesso la vittoria al suo avversario, dunque, si è fatto realtà, seppur in modo inaspettato e roboante. Sin dal suo insediamento, in fondo, ogni momento della sua carriera politica è stato segnato da una comunicazione performativa, dall’istigazione alla violenza, dalla fomentazione di un odio che, purtroppo, si è concretizzato in più occasioni: da Charlottesville a George Floyd, da Jacob Blake a Capitol Hill. Persino ieri che, su pubblica sollecitazione di Biden ha invitato i suoi a tornare a casa in un messaggio ambiguo al punto giusto, ci è sembrato di scorgere tra le mani di The Donald il fiammifero della propaganda che si fa fascismo. Della destra che torna a fare ciò che le riesce meglio, della destra che non conosce diritti, che non conosce Costituzione. È lo stesso Trump, in effetti, che ha suggerito ai propri elettori di invadere Washington quando in Pennsylvania Avenue ci sarà il passaggio dei potere. Ma cosa succederà il 20 gennaio, alla luce degli ultimi episodi? L’America permetterà davvero un golpe?
Dai dolorosi 8 minuti e 46 secondi dello scorso 25 maggio, gli USA sono scenario di una spaccatura netta, di una guerra intestina che è necessità di farsi ascoltare, di pretendere giustizia e verità. L’uccisione dell’ennesimo afroamericano voluta dagli agenti locali, infatti, ha scatenato l’insofferenza della comunità di colore – ma non solo – stanca di non vedersi riconosciuta diritti e uguaglianza, negli Stati Uniti come in gran parte dei cosiddetti Paesi civilizzati. Per mesi, le città, da Minneapolis a New York, sono state invase da migliaia di manifestanti uniti in un unico grido: Black Lives Matter. Le vite nere contano. Ma non ne avranno diritto finché quel grido non sarà una sola voce, finché il razzismo non verrà riconosciuto come un problema dei bianchi, quelli che lo esercitano per affermare una supremazia autoproclamata che nega qualsiasi forma di vivere civile. Quella, appunto, di Donald Trump. Al loro grido si è unito, poi, l’urlo di liberazione dei tantissimi che a novembre hanno invaso le urne, cacciando – finalmente – il Tycoon dalla Casa Bianca. Da allora, dopo le prime giornate di giubilo da un lato e di proteste dall’altro, lo scontro si è spostato su Twitter, il social preferito dal licenziatore newyorchese che anche ieri se ne è servito dapprima per lanciare la pietra, poi per nascondere la mano, come fosse un aizzatore di folle qualsiasi, il solito dittatore travestito da democratico. Ed è su questa parola che vale la pena concentrarsi: democrazia, di certo la più abusata dai figli d’America.
Non era mai successo, nella storia delle democrazie costituzionali, che un Presidente incitasse le sue milizie armate ad assaltare un luogo sacro per la tenuta del Paese. Una vicenda di una gravità assoluta che anziché suonare come il culmine, il punto più basso della politica populista e istigatrice, somiglia più a un campanello d’allarme. A un segnale inequivocabile che lo stesso Trump ha voluto mandare in mondovisione a tutti coloro per i quali, in questi anni, è stato il riferimento, il leader indiscusso, la figura intorno alla quale si è ricomposto un movimento globale sovranista, xenofobo e suprematista che altro non aspettava che un segnale, il suo, che tutto è ancora possibile. Persino trafiggere il cuore della grande democrazia americana. L’unica, la vera, l’intramontabile.
L’ascesa di Donald Trump, lo abbiamo ripetuto spesso, ha cambiato la storia contemporanea, accelerando un processo già in atto ma pericolosamente concretizzatosi con il suo insediamento alla Casa Bianca. Non a caso, la sterzata a destra che la sua elezione ha dato al mondo ha significato il rinvigorimento di un’ideologia di stampo fascista che si riverbera anche in Europa e che il Presidente stesso non ha mai rifiutato, nell’espressione più pura di quella mentalità schiacciasassi che gli Stati Uniti portano avanti da sempre. All’indomani dal 6 gennaio, quindi, è l’intera democrazia a doversi interrogare, a dover riflettere su cosa significhi quando la realtà è sostituita dalla performance e la fake politics scambiata per libertà. Perché finisce male. Finisce che la stanza dei bottoni resti priva di controllo e che qualcuno, un bravo oratore o persino l’uomo più potente al mondo, nel bel mezzo di un colpo di Stato dica alla folla di ricordare quel giorno per sempre perché è questo che succede quando i patrioti, gli uomini di buon cuore, vengono trattati male a lungo. Eppure, avremmo dovuto già saperlo, ci siamo già passati.
E se la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa, c’è molto di più nelle immagini dell’assalto al Congresso. C’è un filo affatto sottile che unisce le destre di tutto il mondo, un messaggio che produce immaginario, che punta a sovvertire ogni certezza della democrazia occidentale, che si beffa persino delle elezioni, lo strumento su cui si è sempre retta. Lo ha ribadito lo stesso Trump nel suo ultimo comunicato: «Anche se questa è la fine del più grande mandato della storia presidenziale, è solo l’inizio della nostra battaglia per rendere di nuovo grande l’America». Una sorta di stand back, stand by. State indietro, siate pronti.
Ricordate questo giorno per sempre, dunque, perché – come ha sottolineato Biden nel suo accorato appello alla nazione – la democrazia è fragile e va preservata. E per farlo servono dei leader che abbiano il coraggio di alzarsi in piedi, devoti non al potere ma al bene comune. Serve un’informazione corretta, che non minimizzi o sbeffeggi. Un sentire responsabile e democratico, appunto. Il problema è riuscire a trovare almeno uno tra questi.