Si chiama Amedeo, ma tutti a Livorno lo chiamano Dedo. Ama dipingere e studia. Sente parlare di una grande città, piena di luce e arte. Ha appena 22 anni, ma è già deciso: è lì che andrà a ritrarre la gente per le strade, nei ristoranti, nei Café. È il 1906, la città si chiama Parigi, e lui è Amedeo Modigliani. O Modì, come dicono i parigini, ché maudit, in francese, vuol dire anche maledetto. E lui lo è davvero, sospeso fra due nazioni, annegato nell’alcol, ubriaco d’arte e di Parigi.
È qui che incontrerà maestri immortali, Picasso, Rivera, Kisling, in circoli frequentati da Chagall, Matisse, Soutine e innumerevoli altri, tutti concentrati nello stesso crocevia, così incisivi da consacrare la Parigi dei ruggenti anni Venti come capitale dell’arte e della cultura.
In questi nuovi anni Venti del Duemila, invece, che ne è dell’artista? Nei frenetici anni della post-industrializzazione, è ancora possibile vivere d’arte?
In Italia, il principale sostegno economico per un artista è ancora la vendita di opere a privati. Ma in un mondo in costante mutamento, anche l’arte cambia. In una vecchia intervista per La nuvola del lavoro del Corriere, l’architetto ed esperto d’arte Fortunato D’Amico sottolineava già l’importanza di stare al passo coi tempi: «I mercati italiani stravendono solo quadri. […] Ma nel mondo di oggi, dove le case non si fanno più coi muri ma si fanno di vetro, […] l’arte dove la mettono? Ci sono artisti che hanno ragionato su questo e oggi il loro concetto artistico di libertà lo applicano facendo pavimenti, lavorando a stretto contatto con gli architetti, o con grandi ingegneri nella progettazione dei grattacieli. […] Chiaramente il vecchio sistema della galleria e del critico d’arte è antiquato rispetto alla vera prospettiva e necessità del mercato, che non è quella di appendere un quadro».
E per attori, registi, cantanti? Nel 2017, la Fondazione Di Vittorio-CGIL decide di svolgere un’indagine sulla Vita da artista. 3856 professionisti dello spettacolo dal vivo offrono le proprie testimonianze a un questionario online che, confrontato con i dati ISTAT, conferma una prospettiva economica davvero incoraggiante, ma solo per il 4.2% del campione (con stipendi di oltre i 25mila euro l’anno). Per tutti gli altri, garantito il panino in trattoria ogni sabato sera, con una lauta entrata da 5mila euro l’anno per il 51.4% e tra i 5 e i 15mila per il resto (37.5%). Ovviamente, anche qui, con in media una percentuale di guadagno inferiore delle donne rispetto agli uomini e del Sud rispetto al Nord: un’Italia affezionata ai propri cliché.
In questa giungla di interessi economici, disoccupazione, periodi di fermo – aggravati dalle difficoltà della pandemia – l’artista anonimo viene dimenticato. E dimenticata è la propria arte, dagli altri e da sé, che pure vorrebbe rispondere alle sollecitazioni di chi «Pensa a trovarti un lavoro!». Se non fosse che anche il “lavoro” manca, negli altri campi come nel proprio.
Allora, come incentivare le iniziative di chi ha talento? Qualche suggerimento arriva dalla Francia, dove artisti e tecnici dello spettacolo non sono solo pagati meglio, ma anche tutelati nei periodi di fermo. Hanno, infatti, diritto all’intermittent du spectacle, un sussidio di disoccupazione garantito al fronte di un monte ore ricoperto nell’arco dell’anno, che si aggiunge ad assegni di maternità e malattia e al riconoscimento di un forfait per le vacanze. E per chi ha difficoltà, un collocamento dedicato: il Pole Emploi Spectacle.
Ma la Francia non è Parigi, che oggi come ieri continua ad accogliere talenti dal mondo e dalla nazione, promuovendo l’arte con iniziative come la Nuit Blanche. Evento culturale e sociale promosso dallo Stato, è una notte in cui tutti i musei sono aperti al pubblico e giovani emergenti possono proporre spettacoli e installazioni in piazze e musei, dando rilievo a sé e alla città. Così, l’arte non dà respiro solo allo spirito, ma attira turismo e il turismo ossigena l’economia locale.
Montmartre, le innumerevoli gallerie, i musei gratuiti per i cittadini europei fino ai 26 anni, sono catalizzatori d’arte aperta agli stranieri. È un’esperienza che ci racconta Giovanni Castaldi, fotografo e giovane artista napoletano, che per nove mesi ha vissuto il sogno parigino: «Parigi è una città d’arte che ti dà l’opportunità di investire su te stesso. Ci sono tantissime organizzazioni indipendenti, composte da ballerini, attori, cantanti, pittori, che promuovono l’arte attraverso eventi autofinanziati con la vendita di biglietti spesso tra i 3 e i 5 euro. Io stesso ho partecipato a un progetto di La Curie, a La Courneuve, poco fuori dal centro».
Ripensando alla sua Napoli ricca d’arte, Giovanni segnala un problema di mentalità: «Fare l’artista a Napoli viene visto come un hobby, non come un lavoro. Manca quel senso di realtà che a Parigi c’è». Eppure, Napoli ha qualcosa che a Parigi manca: «L’evocazione. Il rumore del mare, una bambina che corre per strada, la gente che urla, il caos… Napoli ha di fondamentale la dimensione del limite. È il limite che mi spinge a immaginare. Io vivo a Fuorigrotta e la dimensione del quartiere è stata essenziale per me. È un contesto che mi ha oppresso, e proprio questo ha fatto scattare la voglia di valicare quei muri. L’arte è il mondo in cui mi rifugio, la mia occasione di infinito».
È lo specchio di «una società che ritiene di poter fare a meno dell’arte», come sostiene Francesco Pareti, pianista noto in Italia e all’estero e docente al conservatorio di Napoli. «Il ruolo attribuito alla cultura e, in generale, alle arti in Italia è abbastanza marginale, sintetizzabile con la famosa esternazione di un noto ministro di qualche tempo fa: “Con la cultura non si mangia”. La scarsa attenzione alla scuola e all’università e l’indottrinamento esercitato dalle televisioni commerciali hanno purtroppo compromesso alla base le possibilità formative che possono favorire la ricezione del messaggio artistico da parte del pubblico. In questo contesto la considerazione riservata agli artisti è piuttosto scarsa, a meno che non si tratti di stelle consacrate al successo dallo star-system mediatico».
Francesco Pareti sottolinea la distanza rispetto ad altri Paesi d’Europa: «Parlando di musica, ad esempio, in Germania ci sono 24 orchestre sinfoniche stabili e 38 teatri d’opera. In Italia purtroppo la situazione è molto peggiore, e anche una città importante come Napoli non ha un’orchestra sinfonica stabile. Non parliamo poi di città come Parigi, Londra o Vienna, intrise d’arte, di musica e di cultura».
Converrebbe così cogliere l’invito di Pareti e distaccarsi da «un sistema che tende a non premiare il merito ma l’omologazione», valorizzare il nostro patrimonio culturale, investire sulla tutela di opere, monumenti e persone, custodire i nostri tesori. L’Italia vincerà quando saprà attrarre valore, invece di spingerlo lontano.