Argentina, Ecuador, Cile, Bolivia: sono momenti difficili per l’America Latina. Giorni di violenze e protesta, di manovre economiche e diritti negati. Sono settimane di spaventosi ritorni al passato.
Se in Europa spirano forti i venti del nazifascismo, infatti, nell’America meridionale parole che rimandano a ieri mai dimenticati tornano a riempire le pagine dei principali quotidiani. I tumulti si susseguono veloci, con un’insistenza crescente che sta mettendo in ginocchio una porzione di Terra già storicamente difficile. Le periferie del mondo, quelle che la prosopopea capitalista definisce tali per spezzarne il respiro, si stanno rivoltando. Stanche di un ascolto negato, stufe di un ruolo marginale, sfiancate di valere sempre meno di qualcun altro: meno dell’America buona, meno di un Occidente venduto come giusto, meno di un’oligarchia spacciata per democrazia. Come l’unica alternativa possibile.
E, così, in vaste aree del continente americano il tappo del consenso rappresentativo è saltato fino a dare origine a una vera e propria guerra. Il carovita, gli sforzi richiesti sempre e solo alle classi medie, agli emarginati, ai figli di un dio che non li vuole, misti alle disuguaglianze che da troppo caratterizzano gli Stati moderni, hanno spinto la popolazione a ribaltare un sistema già di per sé capovolto.
Il tutto, quantomeno per le nostre cronistorie, è iniziato in Argentina. Soltanto poche settimane fa, una legge ha dichiarato emergenza alimentare fino al prossimo 2022. In tanti, troppi ormai, non riescono più a provvedere al proprio sostentamento, a sfamare i figli, a prendersi cura di se stessi e di chi amano. Un pezzo di pane si è trasformato in un bene di lusso. Acqua, farina e lievito. La normativa approvata prevede un aumento del 50% del budget destinato agli aiuti alimentari statali ma, come denunciano le organizzazioni locali, ancora non si sa chi distribuirà questi aiuti né come.
Secondo i sindacati, la crisi che sta devastando l’Argentina è peggiore di tutte quelle precedenti. Molte sono le aziende che chiudono senza preavviso né indennizzo, troppi i lavoratori senza contratto. Come a Mar del Plata, a sud di Buenos Aires, dove i fileteros occupati in nero – gli operai che sfilettano il pesce – rappresentano circa il 70% della forza lavoro. In città, la sospensione di numerose attività ha fatto impennare il tasso di disoccupazione al 13.4%, record nel Paese, a danno soprattutto delle fasce più giovani, con il 37% delle ragazze sotto i 30 anni senza un impiego.
Nelle periferie, intanto, continuano a svilupparsi grandi baraccopoli, così come le mense sociali accolgono un numero crescente di persone a ogni pasto. Di conseguenza, la fiducia nel domani si fa flebile, una richiesta quasi arrogante, nonostante l’avvicinarsi delle elezioni previste per il 27 ottobre. Una data che, molto probabilmente, vedrà il ritorno al peronismo e la vittoria di Alberto Fernández e Cristina Kirchner, già al governo tra il 2007 e il 2015. Lo scorso agosto, infatti, il Presidente Mauricio Macri ha visto venir meno la propria maggioranza in occasione delle primarie. A lui il popolo argentino addossa le colpe della crisi, reo, con le sue politiche liberiste, di aver riaperto le porte al Fondo Monetario Internazionale (FMI) per un debito pari a 57 miliardi di dollari, di cui l’80% è già stato versato in cambio di una durissima austerity.
Basti pensare che, stando ai dati resi noti dall’INDEC, l’ISTAT argentino, l’indice di povertà nel Paese ha raggiunto il 35.4% della popolazione alla fine del primo semestre dell’anno in corso. Nel 2018 era al 27.3. Il livello di indigenza, invece, è salito al 7.7% dal 4.9 del 2017. Considerando che la cittadinanza stimata è pari a circa 45 milioni, dunque, i poveri nella terra che diede i natali a Ernesto Guevara sarebbero 15.9 milioni, gli indigenti 3.4. In particolare, la povertà tra i minori di 15 anni è del 52.6% e del 42.3% tra i 15 e i 29 anni. Nella fascia d’età tra i 30 e i 64 anni, invece, del 30.4%. La crescita rapida di questi numeri, spiegano le statistiche, è dovuta al crollo del 2.5% dell’economia argentina nell’ultimo anno, all’aumento della disoccupazione al 10.6% e a un’inflazione che ha raggiunto il 55.8%.
Altrettanto pericolosa è, poi, la situazione in Ecuador dove la rabbia è montata in seguito al taglio dei sussidi per il carburante – previsti da 40 anni –, che avrebbe fatto risparmiare alle casse statali circa 1.3 miliardi di dollari. Una decisione che ha scatenato la popolazione, in piazza per giorni, costringendo il Presidente Lenín Moreno a dichiarare lo stato di emergenza e a imporre il coprifuoco nel centro di Quito, da cui, per motivi di sicurezza, ha anche spostato la sede del governo.
Le proteste, avviate da autotrasportatori e tassisti, hanno coinvolto studenti e gruppi indigeni, tutti compatti affinché la manovra fosse cancellata. Dopo oltre 1300 feriti, centinaia di arresti e persino 8 morti, l’esecutivo è tornato sui suoi passi per ristabilire un equilibrio che, tuttavia, appare soltanto superficiale.
Non è superficiale, invece, il terremoto che sta sconvolgendo il Cile. Violenze, incendi, scontri, coprifuoco: il Paese di Pablo Neruda sembra, di colpo, ripiombato negli anni di Pinochet, quando le strade erano costantemente pattugliate e le libertà negate. Ad accendere la fiamma ribelle è stato l’aumento delle tariffe del trasporto pubblico nella capitale, già molto care se confrontate con lo stipendio medio dei cittadini. Basti pensare che il salario minimo di un cileno è pari a circa 300mila pesos – 400 euro mensili – di cui, con la riforma per fortuna revocata, 33mila sarebbero stati destinati proprio ai trasporti.
Le prime rimostranze hanno avuto luogo il 7 ottobre. Tuttavia, l’apocalisse si è scatenata venerdì 18 quando le proteste si sono trasformate in guerriglia urbana. D’altronde, nonostante il Presidente conservatore Sebastián Piñera abbia definito il Paese come un’oasi di pace, da tempo la popolazione denuncia i costi eccessivi dei farmaci, le utenze sempre più care – solo a ottobre le tariffe della luce sono aumentate del 10.5% –, un’istruzione elitaria e i costi degli affitti, in particolare a Santiago, al pari di quelli europei. Il sistema sanitario, inoltre, è praticamente privato e copre solo il 60% delle prestazioni, escludendo gli anziani. Come se non bastasse, è tre volte più caro per le donne.
Così, sebbene l’incremento del biglietto metropolitano sia stato subito sospeso, i rivoltosi non hanno ceduto, manifestando a oltranza il malcontento dovuto alle disuguaglianze sociali. Il Cile, infatti, stima la Banca Mondiale, è, dopo gli Stati africani, tra i cinque Paesi più diseguali al mondo. Nel 2017, ad esempio, il 10% più ricco della società ha guadagnato 39.1 volte più del 10% più povero. Un regalo della dittatura di Augusto Pinochet che nessuno, da quell’11 marzo 1990, ha pensato di gettar via, combattendo la privatizzazione dei servizi essenziali.
Gli scontri, dunque, si sono spostati presto in molte altre importanti città del Paese provocando il toque de queda dalle 22 alle 7 del mattino, il coprifuoco che a Santiago non veniva imposto dal 1987, in pieno regime militare. Ad adottare questa drastica misura è stato un hombre duro, Javier Iturriaga Del Campo, Capo della Difesa Nazionale, nonché figlio di Dante Iturriaga Marchese, accusato di aver consegnato prigionieri a centri di tortura durante la dittatura, e nipote di Pablo Iturriaga Marchese, responsabile della sparizione dell’ex sacerdote Omar Venturelli, a sua volta corresponsabile della repressione politica e membro della DINA, la polizia segreta di Pinochet. Una continuità, quantomeno biologica, che non può non preoccupare, soprattutto in seguito alle immagini e alle denunce che proprio in queste ore giungono dal Sud America, dove a farla da padrona è la violenza dei militari, addirittura immortalati a sniffare cocaina prima di intervenire. I morti hanno già superato i 20, i feriti e i detenuti nemmeno si contano.
Dopo l’Ecuador e il Cile, però, a svegliarsi è stata anche la Bolivia, il Paese che ha visto morire il Che. Nelle ultime ore, infatti, anche altre piazze hanno fatto sentire la propria voce. Sono quelle di La Paz, Potosí, Sucre e numerosi centri. A scatenare le proteste è stato lo scrutinio elettorale in occasione delle presidenziali della scorsa domenica. Quando erano all’83%, infatti, le proiezioni mostravano un’alta probabilità di ballottaggio, con Evo Morales, alla guida del Paese dal 2006, al 45% e lo sfidante Carlos Mesa al 38. Tuttavia, la diffusione dei dati del Tribunale Supremo Elettorale è stata interrotta per quasi 24 ore e quando è ripresa lo scenario si è mostrato completamente ribaltato, con il Presidente in carica in netto vantaggio (46.86%) su Mesa (36.72%). In effetti, per evitare di tornare alle urne, era necessario superare la soglia del 40% con un distacco di almeno 10 punti sull’avversario. Un risultato che le opposizioni hanno definito una burla alla democrazia e che ha fatto gridare ai brogli, scatenando l’ira dei cittadini.
La dura repressione sudamericana, tuttavia, non sconvolge l’Europa, sempre pronta a esportare democrazia se a chiederlo è lo zio Sam. Bruxelles, infatti, ha bocciato la proposta di aprire un dibattito in merito alla questione cilena con 293 voti contrari, tra cui anche i no della delegazione PD.
Quelle del Sud America, però, sono proteste per lo più giovani, rivolte guidate, come nel caso di Santiago, da una nuova generazione di cileni, che hanno meno di 30 anni e non hanno conosciuto la dittatura, aperti alla possibilità di esprimere le proprie sofferenze e che, disillusi, sentono che non hanno niente da perdere. Al pari, se vogliamo, delle manifestazioni pro-clima che stanno mobilitando il mondo e a cui è garantita un’eco mediatica di gran lunga maggiore. Eppure, in entrambi i casi, in ballo c’è il presente degli adulti e il futuro dei più piccoli, un domani difficilmente ipotizzabile se la politica non torna – o, meglio, inizia – a parlare con loro, di loro, per loro. D’altronde, sosteneva Salvador Allende, essere giovane e non essere rivoluzionario è una contraddizione perfino biologica. E una civiltà che vuole sopravvivere non può e non deve ignorare le uniche possibili voci del mondo che sarà.