Apprendistato alla salvezza è il titolo magnifico dell’ultima silloge di Pasquale Vitagliano, poeta, saggista e critico letterario, animatore del Lit-blog Lapoesiaelospirito, collaboratore della Gazzetta del Mezzogiorno e del Manifesto, caporedattore della rivista Menabò delle Edizioni Terra d’ulivi. Si può apprendere qualche strategia utile per salvarsi? Può la poesia salvare l’uomo? La poesia civile come si differenzia dalla poesia in generale? Qual è la sua caratteristica fondativa? Tante sono le domande che il testo sollecita. La poesia può salvare il mondo? Quale ricerca può salvare l’uomo da se stesso?
Gli umani sono una categoria animale particolare perché dotati di pensiero e di una grande capacità autodistruttiva e distruttiva, una specie maligna che affligge il pianeta. Questo testo suggerisce una percezione distopica e apocalittica che si concretizza in una serie di immagini consecutive, che mantengono la loro autonomia, sottolineata dall’uso continuo della maiuscola. Vitagliano descrive la concezione laica di un tempo e di un luogo che minaccia e frammenta, non prevedendo la dimensione di una purificazione spirituale ultraterrena ma rimanendo in uno scoraggiamento disperato.
Ci vuole coraggio infatti per sostenere le prove di questa esistenza terrena. È l’azione del cuore, l’empatia, che ci umanizza nel senso migliore del termine. La poesia può insegnare una strategia di salvezza dai nostri demoni? E noi siamo in grado di apprendere questa strada di salvezza? E in che misura riusciamo a boicottarci per tornare instancabilmente al punto di partenza?
La poesia diventa civile quando chiama alla riflessione condivisa sui significati del nostro diventare persona e comunità e passa da una carica introspettiva (solipsistica) a una coscienza collettiva di un immaginario valoriale da individuare, declinare e metabolizzare secondo le proprie indicazioni di pensiero. Così le tre sillogi di Vitagliano stanno a sottolineare un cammino, tre stazioni di un unico viaggio, nella ricerca di senso. Dal fare spietato alla salvezza.
Questa nuova raccolta segue l’ultima intitolata infatti Del fare spietato. Insieme ad Habeas Corpus, la trilogia poetica si centra sul corpo, canale percettivo-sensoriale, canale di comunicazione, protezione e contatto della nostra umanità, corpo come luogo della vulnerabilità. L’uomo non ha pietà dell’altro, crea ossessivamente il suo nemico, spinge al conflitto, fuori da ogni apprendimento salvifico e riparatore. Un cammino laico e disincantato che parte dal reale e arriva al reale, senza misticismi e voli pindarici.
La poesia diventa quindi una forma di resistenza contro un atteggiamento distorto e manipolatore, che formalizza il gesto e non va nelle profondità del significato. Bisogna tornare a comprendere il sistema essenziale dei simboli e dei segni che ci appartengono, che ci rendono umani. Il legame tra significante e significato va ristabilito con coraggio e determinazione. Bisogna visualizzare la guerra interiore che si sviluppa poi nella relazione con l’altro.
Non mi aspettavo una guerra/ Per cui non devo combattere/ Eppure sono in trincea/ Con un solo colpo in canna/ Così devo difendere la chiave/ Da passare al prigioniero.
Ritornare dal segno al senso, connettere il senso delle parole al senso stesso delle cose. Il poeta crea un “film” di oggetti/pensiero che assomiglia a una serie successiva di fotogrammi in movimento, un processo cinematico di sedimentazione che canta il corpo nascosto della realtà quotidiana. Ogni pagina accumula il reale attraverso il richiamo oggettuale e dà dignità e spessore a ciascun dettaglio, lo sacralizza e lo nomina. Un viaggio laico nella sacralità del reale, nella considerazione che la salvezza è un continuo apprendistato fatto di attenzione senza tensione, testimonianza di autenticità che dura un’intera vita. La sua ricerca poetica è introspettiva ma sempre mantenendo lo sguardo sul mondo. Diventa così poesia etica e civile.
Far sì che agendo/ Il dire e il fare/ Guardino dalla stessa sponda/ Smetterla così di fare cose/ Con le parole agire/ In tutto quello che accada.
Il poeta abita la casa dell’eremita in una fertile intermittenza tra stare nelle cose e stare fuori delle cose. Si chiude nella sua stanza e riflette, non può dare risposte ma cerca di decifrare il territorio che abita, i simboli e i suoi tesori nascosti, individua i punti di vicinanza con gli altri che interroga da lontano con le sue parole, cercando la propria cifra esistenziale. Nella sua solitudine, non è un isolato ma crea connessioni con la versificazione, disegnando ponti e forzando un potenziale ascolto.
La luce non serve la speranza non smuove/ Alzati ascolta prova a spostarti cammina/ La luce non serve per salvarsi.
L’apprendistato è un’ipotesi esistenziale specifica che conosce anche momenti di stasi e di assestamento. Scrive Lino Angiuli, nella postfazione: Poesia come arte dell’abbandono e il verso poetico può tratteggiare un’immagine capace di vibrare universalmente negli spiriti di chi legge, può restituire una condizione storica dell’uomo o penetrare tutta intera la sua essenza errabonda con la sola interruzione del rigo che introduce l’enjambement. Quella di Pasquale Vitagliano è invece una parola che si riconosce in ritardo, che sa di sopraggiungere quando ormai tutto è stato detto e non rimane più nulla di edificante cui aderire, né madonne, né ninfe, né nature morte; una parola che, non potendo più nemmeno creare scandalo, può approssimarsi solo alla marginalità, ai rifiuti della storia, che al più possono essere differenziati secondo una tassonomia elementare. Una parola che sa di non illuminare più, sa di non poter più essere di conforto a chi necessiti cure: la poesia di Vitagliano sa di potere ormai solo collocarsi all’uscio, nella frontiera fra un buio rassicurante e una luce minacciosa perché, questa sì, capace di dischiudere la realtà in tutta la propria verità.
Le cose sono parole e gli oggetti parlano/ Senza bisogno di muoversi/ Perché adesso puoi toccare/ Ciò che dici.
L’apprendistato alla salvezza di cui parla Vitagliano non si conclude mai ma induce a un comportamento attento, a una perenne vigilanza, a saper sostenere l’ansia del dubbio e dell’inquietudine. La ricerca di una possibile armonia, di una pacificazione che nasce dallo sguardo diretto e iper dettagliato sul reale non pacifica ma rende “umani”, rende prossimo quell’umanesimo basato sull’evoluzione civile ed etica, non autoreferenziale e predatoria, un umanesimo che cerca di guarire dal cannibalismo egoico dei nostri tempi dove ogni idealità sembra decaduta.
In questa poesia non ci sono alberi/ Animali o elementi naturali/ Neppure parti del corpo e/ Neanche oggetti di uso comune/ Che pure sono quelli che preferiscono usare/ In questa poesia ci sono soltanto/ Settanta parole che senza aspettarsi premi/ Cercano di scrivere appena/ Ciò che la vita non riesce a dire/ Quello che dalla vita avanza/ Perché possa smaltire il dolore/ Per dare senso alla salvezza.
Questa poesia è quasi il manifesto epigrammatico della silloge. Con una scrittura essenziale e scarna, Vitagliano indica i criteri principali della sua poetica. Ogni parola è calibrata sulla misura di un universale anonimato che non cerca trionfi e applausi ma la segnatura condivisa del dolore e della fatica di essere uomini. Ogni verso sottolinea il gesto ultimo della ricerca di significato esistenziale. Un lungo monologo interiore per apprendere una via di salvezza, contro ogni formalismo retorico, contro ogni esibizionismo letterario. Bisogna tornare al sistema essenziale dei simboli. Parole/oggetto di oggetti/pensiero che creano una architettura filmica folgorante come un testo cinematico. Un processo di accumulazione della memoria cellulare del corpo che diventa scrittura.
Contributo a cura di Floriana Coppola