«Mi parli di Apocalypse Now.»
«Sì, dunque, Apocalypse Now, regia di Francis Ford Coppola, musica dei Doors… il film comincia con una foresta incendiata, sopra tanti elicotteri che volano… e sotto la musica dei Doors… The End… Dum Dum Dum…»
Con queste battute cominciava il surreale ed esilarante esame di cinema dell’improbabile Enrico Fabieschi, personaggio inventato dalle chine di Andrea Pazienza e portato sullo schermo nel 2002 in Paz, per poi proseguire con un patetico arrampicarsi sugli specchi nel tentativo di mettere insieme un paio di luoghi comuni sul film. Questo solo per dire quanto il lavoro di Coppola sia diventato, nell’immaginario collettivo, sinonimo del cinema per eccellenza. Un cinema totale, senza compromessi, più volte definito film-mondo. A quarant’anni di distanza dall’uscita nelle sale e dalla Palma d’Oro a Cannes nel 1979, Francis Ford Coppola ritorna sulla sua creatura più amata ma anche più ardua da mettere insieme e, come un novello Frankenstein, gioca ancora con i suoi brandelli.
Dopo l’edizione Redux del 2001 che recuperava ben 49 minuti di materiale, tra cui la famosa scena nella piantagione francese, aumentando la durata complessiva della pellicola a 202 minuti – dai 153 della prima edizione – questa nuova Final Cut, invece, riporta il film a 183 minuti, quindi più breve del Redux, ma comunque più lunga rispetto alla versione del ‘79. Con l’era del digitale e con la tendenza dei film-evento che riportano per pochi giorni nelle sale i classici del passato, è possibile oggi per i cineasti tornare sulle opere, come in un perenne work in progress. L’occasione non poteva certo sfuggire a uno degli autori più perfezionisti che proprio in Apocalypse Now aveva riversato tutto il suo mondo interiore e le sue ossessioni in modo intenso.
Forse solo Blade Runner vanta più versioni e ripensamenti tra la Director’s cut del 1991, le varie copie lavoro sfuggite alle maglie della distribuzione, per arrivare al Final Cut – pare definitivo – voluto da Ridley Scott nel 2007. Che sia un bene o un male questo potere demiurgico di tornare continuamente sulle proprie opere, non sta a noi giudicare. È interessante notare, però, come le opere diventino così una stratificazione di senso che si va accumulando negli anni e che cambia a seconda delle epoche.
Al di là delle differenze tra quest’ultima versione di Apocalypse Now e il Redux del 2001 – per le quali rimando alla nota finale – rimane comunque la grande opportunità di rivivere su grande schermo le immagini e i suoni di Coppola, di Vittorio Storaro – vincitore dell’Oscar per la miglior fotografia – e di Walter Murch – vincitore dell’Oscar per il miglior suono nonché leggendario montatore del film, autore di imprescindibili saggi sull’arte del montaggio tra cui In un batter d’occhi – in un culto della visione che si ripete come un rituale, proprio come quello con cui Willard/Martin Sheen elimina Kurtz/Marlon Brando alla fine del film. Su quest’opera sono stati spesi proverbiali fiumi d’inchiostro e non pretendiamo certo di dire cose inedite nel poco spazio che abbiamo qui, né di poter rendere esaustivamente conto di una pellicola tanto complessa.
Una cosa si può dire certamente: Apocalypse Now è una di quelle opere che sfrutta all’ennesima potenza la capacità delle immagini di raccontare il simbolico e andare oltre la patina superficiale che riveste il mondo per suggerire un livello indicibile, invisibile, che sottende la realtà. E lo fa con una tale fiducia nella forza delle immagini in movimento e dei suoni che le accompagnano da aggredire lo spettatore con un florilegio di significati, o semplici stimoli e allusioni, che è difficile cogliere a una prima visione. E, infatti, ogni volta che lo si riguarda, spuntano fuori nuovi livelli di senso in una ricerca che diventa via via sempre più abissale, tanto più veniamo stimolati dalle nuove versioni che si avvicendano negli anni. Ecco perché l’apocalisse coppoliana può essere definita un’opera-mondo.
Appuntamento imperdibile per ogni cinefilo che si rispetti, Apocalypse Now al cinema diventa occasione per ognuno di fare i conti con la propria memoria di spettatore e ripassare tutte quelle scene cult che vengono citate nelle antologie ma anche nei discorsi tra amici quando si vuol fare bella figura: l’attacco della cavalleria dell’aria sulle note della Cavalcata delle walkirie, l’indimenticabile e folle tenente colonnello Kilgore (Robert Duvall), appassionato di surf che costringe i soldati a surfare sotto le bombe e si eccita per l’odore del Napalm al mattino – sa di vittoria –, Marlon Brando che sussurra L’orrore, l’orrore. L’incipit con gli elicotteri, la giungla, le fiamme, la camera d’albergo in cui Willard, fuori di sé, scende nell’abisso accompagnato da The End dei Doors a sugellare uno degli attacchi più strabilianti della storia del cinema, che non ha precedenti nella settima arte e che non ha avuto eguali dopo, discesa nell’inconscio del protagonista, nonché nel rimosso dell’inconscio collettivo che riguarda tutti noi. Un rimosso che, se nel 1979 si rifaceva soprattutto alla Guerra in Vietnam – come giustamente puntualizzato dalla professoressa nella scena di Paz –, trauma che gli americani volevano superare, oggi più che mai si riconnette a ciò che la nostra civiltà vorrebbe negare e che ci scaraventa direttamente in quel cuore di tenebra di cui parla Conrad nel romanzo omonimo del quale il capolavoro di Coppola, scritto originariamente da John Milius, volle essere una libera trasposizione.
Persino la giungla lo voleva morto e in fin dei conti era proprio dalla giungla che lui prendeva ordini. È in queste poche battute pronunciate dalla voce narrante di Willard, poco prima di compiere l’omicidio rituale del colonnello Kurtz, che risiede il cuore tematico di Apocalypse Now, ancora attuale dopo quarant’anni. Siamo così sicuri oggi, nel “civile e avanzato” 2019, di non prendere ancora ordini dalla giungla, ovvero di non essere più soggetti a quelle pulsioni che abitano gli strati inferiori della nostra psiche e che fanno parte di un bagaglio ancestrale, archetipico, che Jung definiva l’uomo di un milione di anni che vive dentro di noi?
«Esiste un conflitto in ogni cuore umano, in bilico tra la ragione e la follia, tra bene e male, e non è detto che vinca sempre il bene. Talvolta la parte oscura riesce a sconfiggere quelli che Lincoln chiamava i migliori angeli della nostra natura… In ogni uomo c’è un punto di non ritorno. C’è in me, in lei. Walter Kurtz è andato oltre ed è ormai evidente che sia del tutto folle»: in queste parole, utilizzate dal generale Corman – nome del mitico regista e produttore alla cui scuola hanno imparato tra gli altri lo stesso Coppola e, per dirne uno, Jonathan Demme – per descrivere la follia del colonnello Kurtz e affibbiare a uno smarrito Willard la missione che dovrà porre fine al suo comando, ritroviamo un monito quanto mai attuale, soprattutto vista tutta l’attenzione tributata in questo periodo al Joker con Joaquin Phoenix e alla sua discesa negli abissi dell’animo umano. Ma mentre la pellicola di Todd Phillips è il frutto di un’operazione a tavolino, seppur raffinata, in cui si è deciso scientificamente di utilizzare certi elementi, già ampiamente dispiegati a un livello anche più complesso nella filmografia scorsesiana, la discesa agli inferi di Willard è il frutto di una ricerca personale e ossessiva di Coppola nei meandri del proprio cuore di tenebra – è ormai leggendaria la devastante lavorazione del film, le cui sole riprese durarono dal marzo 1976 all’agosto 1977 nella foresta delle Filippine, testimoniata dal bellissimo documentario Heart of Darkness realizzato sul set dalla moglie Eleanor. E il risultato di questa totale messa in gioco dell’autore nell’opera è di una potenza tale da sconvolgere i sensi e la psiche e da imprimersi per sempre nelle coscienze di chi lo ha visto. Con buona pace di coloro che, oggigiorno, subito gridano al capolavoro. Intendiamoci, anche in questa rubrica abbiamo elogiato il bellissimo film sul Joker, ma crediamo che la parola capolavoro vada utilizzata con prudenza e con cognizione di causa.
Nella scena finale del confronto tra Kurtz e Willard, come gli appassionati sapranno già, si nota chiaramente una copia de Il ramo d’oro, capo d’opera dell’antropologia di inizio Novecento in cui James Frazer analizzava le culture cosiddette primitive e le loro religioni con la concezione magica che le sottintendeva. Intriso di una visione evoluzionistica riduttiva che guardava a quelle civiltà con l’occhio dell’uomo occidentale, il saggio, che aveva un andamento molto narrativo, fu però da stimolo a un pubblico più vasto di lettori, colti e meno colti, che lo vissero come moralmente ed esteticamente sovversivo, come l’opera che consentì la prima discesa agli inferi e l’incontro con il selvaggio e l’inconscio, esercitando un’influenza tale da essere considerato da Northrop Frye e Lionel Trilling il vero punto di partenza per lo studio della letteratura moderna*.
Autori come Lawrence, Yeats ed Eliot – citato tra l’altro apertamente da Brando/Kurtz che legge un estratto di una sua poesia, The hollow men, ne sono stati influenzati profondamente. Freud e Jung ne hanno parlato diffusamente come di un testo cardine che ci ha permesso di venire in contatto proprio con quel cuore pulsante e oscuro che si trova al fondo della nostra cosiddetta civiltà. Non è un caso che Il ramo d’oro prenda il titolo, oltre che dal prezioso oggetto ricercato da Enea nell’Ade, altra discesa agli inferi, su invito della Sibilla Cumana, anche da un rituale che si svolgeva nel bosco sacro a Diana – Diana Nemorensis, la Diana dei Boschi – che si trovava sulle rive del lago di Nemi, nel Lazio. Il sacerdote preposto al culto della dea e guardiano del recinto sacro poteva essere sostituito in qualsiasi momento da un altro, tramite un vero e proprio duello nel quale il vecchio religioso poteva essere ucciso. In questo caso, l’uccisore ne prendeva il posto divenendo di diritto il re del bosco e conquistando così un ramo dell’albero che si trovava appunto nel recinto sacro. In seguito, poteva essere a sua volta ucciso da un eventuale successore.
È dunque chiara la ragione che spinse Coppola a inserire quel libro proprio nel tempio di Kurtz, dove avviene l’uccisione rituale che Willard compie nei confronti del colonnello dai metodi malsani, prendendone significativamente il posto alla guida del piccolo esercito di cambogiani, vietnamiti e disertori del quale il colonnello si era messo a capo facendosi venerare come un dio. Per fare questo, Willard deve trasfigurarsi, immergersi nelle acque dell’inconscio e rinascere iniziaticamente. Quando infatti riemerge dalle acque del fiume Nung, con il volto coperto da una maschera di fango in una delle inquadrature più iconiche del film, non è più solo un essere umano ma è l’archetipo incarnato, antichissimo e inconoscibile, è qualcosa di oltre-umano che si aggira ferinamente e si confonde facilmente con la tenebra che lo circonda. Diventa egli stesso tenebra e così può facilmente avere la meglio sulle guardie di Kurtz, spuntando come una pantera dagli angoli bui del tempio cambogiano che costituisce la roccaforte del colonnello impazzito. Qui, se vogliamo, scatta una connessione con un titolo molto più vecchio, quel Cat people – Il bacio della pantera –, cult movie di Jaques Turner del 1942 in cui la protagonista, nell’America degli anni ’40, rivendicava il suo retaggio ancestrale proveniente da antichi villaggi dei Balcani in cui esistevano persone possedute dai felini. Nel film avveniva una vera e propria trasformazione della donna in pantera che diventava anche lì metafora di quegli istinti che la civiltà pretende di aver soppresso.
Dopo aver ucciso il Padre/sacerdote e averne preso simbolicamente il posto, però, Willard rinuncia subito al suo nuovo ruolo e fugge via sulla barca che lo ha portato lì. Con lui si porta dietro il giovane e allucinato Lance (Sam Bottoms), l’unico dell’equipaggio che avrebbe mai potuto sopravvivere, forse perché il più puro di tutti, lui che per primo si è lasciato invadere dalla giungla. Non tornerà certo alla civiltà Willard, non potrà dopo tutto ciò che ha attraversato. Non fa più parte né della folle comunità di Kurtz né della cosiddetta civiltà degli uomini occidentali. Vagherà forse per sempre nella giungla dell’immaginario filmico di noi tutti.
N.B.: Per coloro che conoscono la pellicola a menadito e vogliono conoscere le differenze tra la versione Redux del 2001 e la Final Cut, basti dire che sono state tagliate la scena in cui l’equipaggio della barca faceva sesso con le conigliette di Playboy e un momento di confronto tra Willard e Kurtz, in cui quest’ultimo gli leggeva alcuni estratti significativi dal Time Magazine del 1967.
*dall’articolo del 2014 Nel bosco sacro. Realtà, finzione, magia e natura ne Il ramo d’oro di James G. Frazer di Fabiana Dimpflmeier.
Caro Antonio, sono piacevolmente sorpreso dalla complessita’ del tuo commento sul film di Coppola, non conoscevo la tua cultura in materia di critica cinematografica, tanto approfondita da constringermi a leggere il tuo articolo piu’ volte. Complimenti. Nino Maiorino.
Forse ho preso una cantonata, probabilmente l’autore dell’articolo e’ Claudio Gargano, che sembra un tuo vollaboratore. Complimenti, ma eccessivamente tecnico. Nino Maiorino
Si in effetti l’ho scritto io l’articolo. Grazie, sono felice che abbia apprezzato. Certamente può essere considerata tecnica, per non dire specialistica, ma dopo 40 anni non era facile scrivere ancora qualcosa su Apocalypse e per farlo devi inoltrarti in territori oscuri e poco battuti.