Conosco Antonio Vitolo da molti anni e ne ho seguito sempre i pensieri, gli scritti, la vita. La mia identità di psichiatra e fenomenologo di orientamento freudiano – così come il mio bisogno di Umanesimo – ci hanno permesso di dialogare senza mai coesistere in pubblico, vista la mia elettiva esigenza di silenzio (v. il cardellino di Masuottolo e Grasso).
Suppongo che Vitolo fosse sin dalla nascita introverso e anche lui incline al silenzio. Solo un imperioso movimento tellurico di origine amalfitana e flegrea ne ha forse modificato l’istinto di osservar tacendo, fatti salvi esercizi tenorili e suonate di fisarmonica, residuo klezmer.
So bene che, avendo lui rinunciato a diventar latinista in cattedra, farmacista senza farmacia familiare, notaio, il campo delle scelte si è ridotto: è così finito, per prendersi cura di sé, nell’identità di analista, come Musatti e Trevi, con la guida di Aurigemma, mentre un fortunato incontro con Andrea Zanzotto, 1986 – Vitolo citò in un suo articolo su Sisifo e la frustrazione, Miti e oggetti della frustrazione, Rivista di Psicologia Analitica, i suoi versi sulla preminenza del domandare rispetto al rispondere, da Vocativo, e Zanzotto, per singolare intuizione, lo invitò a Pieve di Soligo nel giorno dei primi quarant’anni di vita – ne ha mantenuto viva l’innata passione per la poesia.
Il preambolo guida a constatare la prima uscita di Vitolo in versi: L’aurora del lupo, Manni, 2000, con prefazione di Frediano Sessi. La poesia che dà il titolo alla raccolta deriva da un sussulto del cuore e s’intreccia con L’ora del lupo di Ingmar Bergman, il regista idolo dell’autore: intorno all’aurora e all’alba si addensano i sogni di vita e morte più intensi. Qui ricordo solo un passaggio.
Prima che il gallo canti,
Pietro rinnega e scanosce tre volte,
Pilato giavellotto si lava le mani,
io
nei simboli cerco caldo diversivo,
navigando tra veri simulacri.
Soles occidere et redire possunt,
ma l’aurora ha un primato:
tradit l’ora del lupo,
smascheramento estremo
d’Ingmar Bergman,
picco di TodesAngst,
metamorphoseon hora,
amen dell’angelo passante.
…
Entra nell’astronave,
tendi dritto al trivio,
ch’addensa in nebuloso enigma
Chi trapassa per primo?
l’incerto padre Laio, Edipo, fra Cristoforo.
La chiusa della poesia fissa il mitema di Cristo nel nodo psicogenetico in un verso finale che nomina le sinapsi del sacrificio.
Un corrispettivo biologico che Grasso riprende con penetrante esegesi: La realtà si tradisce col sogno. Tale superiore chiave ermeneutica, che anima la revisione de L’aurora del lupo in una pregevole edizione de Il Laboratorio, 2017, recante i disegni del compianto Maestro Quintino Scolavino (da Gioco di mano, 2010), regge – ecco la persistente novità che serpeggia nella poesia di Vitolo – anche 7 ½.
Tutto nasce da un comune sguardo al mondo dell’Anima, come ricorda Grasso nella prefazione a L’@nticamera del cervello, Oèdipus, 2020, un volume scaturito dall’attrazione e paura di Vitolo nei confronti del robot e dell’intelligenza artificiale. Ritorna la lunga durata: vent’anni, al di là di tante singole occasioni (Le isole si accendono, La Bottega della Poesia di Repubblica), tra il primo e il secondo testo, la cui essenza piace qui richiamare con la seguente poesia:
Noi figli delle stelle palpitiamo
per la scomparsa certa
ma incompresa
di tante stelle uscite senza spiegazione
dal grande occhio dell’osservatorio
non dal cuore.
Ora salutiamo l’uscita di 7 ½, per i tipi de Il Laboratorio, di Vittorio Avella e Antonio Sgambati, luglio 2022, con prefazione di Mimmo Grasso e disegni di Nicola Masuottolo, artista grafico flegreo.
Il titolo: l’intrigante ipotesi di Mimmo Grasso, che insinua una scaturigine dal gioco delle carte è, certo, la prima associazione. Nei dettami freudiani ciò suonerebbe come una convalida. Sennonché, per quanto la prima libera associazione suoni cogente, è un fatto che la stessa area freudiana riveda lo statuto epistemico della cosiddetta “libera associazione”, sulla base della linguistica suassuriana e del concetto di Gliederung, concatenazione. Di qui l’approdo all’amplificazione (Erweiterung) junghiana, un processo linguistico e psichico che aiuta a comprendere la nota apposta da Vitolo all’ultima poesia, la settima del testo in questione:
N.B. 7 ½, quasi 8, che, reclinato, vale infinito, che inizia duplicando il cardine 1-4. Per L.von Franz è simbolo primo del quaternio vitale del DNA (Adenina, Timina, Citosina, Guanina).
Antonio Vitolo si muove da un dato certo: le sette poesie si situano nell’arco di circa dieci mesi – mi confida – e attestano una prospettiva animica di immersione nel clima della pandemia, a cui si aggiunge la decisiva realtà interiore del sogno, al tempo stesso innervato da abissale intensità simbolica e apertura alla dimensione collettiva, conscia e inconscia.
Alla convinzione interiore del primato del sogno si affianca la pregnanza del reale esteriore, la guerra. La poesia 7 suggella – ammette Vitolo – una corrispondenza sino a oggi esplorata solo in parte: le poesie nascerebbero non solo da sogni non sognati (non ricordati), ma da sogni sognati. E sarebbe pensabile che il processo di rimemorazione presentifichi un passaggio dalla tessitura onirica alla versificazione: dal sogno ai versi, fatti di ritmo, numero, tempo. L’ideazione sarebbe, pertanto, una forma di approdo che valica la prosodia e dispone in versi la materia simbolica. La forma allucinatoria del pensiero, la preminenza del dato delle apparizioni della Madonna, la specificità del pensiero anticipatorio si dispongono qui in forma incisiva.
La storia e la geografia, lo spazio e il tempo, la guerra russo-ucraina, il ruolo di Mariupol, la complessa profezia di Fatima, 1917, con il motivo della consacrazione della Russia a Maria (Assunta nel 1950) accolgono, in definitiva, una versificazione che ospita l’idea di grazia, da intendere come laica fenomenologia del sacro. Di qui la pertinenza di una Maria portata in salvo da pompieri: sinolo di un varco salvifico nell’estremo rischio.
Contributo a cura di Vittorio Vacui