In un articolo pubblicato dal World Economic Forum lo scorso anno, la psicologa belga Elke Van Hoof parlava di lockdown come il più grande esperimento psicologico del mondo. Lontana da qualsivoglia teoria complottista, la studiosa analizzava comportamenti e reazioni dei 2.6 miliardi di persone costrette in casa dalla pandemia al fine di comprendere quali e quanti danni l’isolamento forzato avesse causato su di loro.
Già a fine febbraio, dunque ben prima che le misure di contenimento del contagio fossero applicate in buona parte dei Paesi europei, la rivista scientifica The Lancet aveva pubblicato un’ampia sintesi di studi che documentavano l’impatto psicologico che il confinamento può significare. Tra quelli elencati, i sintomi più comuni erano risultati sbalzi di umore, insonnia, stress, ansia, irritabilità, rabbia, esaurimento emotivo e depressione. Parole e stati d’animo con cui abbiamo imparato a familiarizzare proprio in questi mesi. In particolare, in caso di quarantena, da intendersi come limitazione dei movimenti di persone potenzialmente esposte a una malattia contagiosa, le ragioni erano tutte legate al rischio di infezione, alla paura di ammalarsi o al timore di perdere un proprio caro. Ma, anche, alla terribile sensazione di precarietà professionale ed economica che ancora smorza il respiro.
Gli esperti, però, non si erano limitati all’analisi del momento, bensì avevano presagito una nuova pandemia che di lì a poco ci avrebbe colpito se non avessimo lavorato, sin da subito, su di noi e sull’intera collettività. A quattordici mesi di distanza, l’AIFA conferma la previsione e ripropone uno spaccato di Italia ancora troppo ignorato. Da qualche settimana, infatti, l’Agenzia Italiana del Farmaco ha reso noto il proprio monitoraggio sull’uso dei medicinali durante l’epidemia da COVID-19, sottolineando l’aumento, nel 2020, del consumo di ansiolitici. L’incremento, pari al 12%, si è registrato soprattutto nelle regioni del Centro, in particolare nelle Marche (+68%) e in Umbria (+73%), con una crescita maggiore nella cosiddetta Fase 2.
Già agli albori delle prime riaperture dello scorso maggio, si erano registrate, in effetti, non poche difficoltà all’idea di uscire, la sensazione infelice di star abbandonando la propria comfort zone per tornare in un mondo che non era più quello che ci aveva accolto fino a qualche mese prima. A tal proposito, gli esperti avevano iniziato a parlare di sindrome della capanna, quella che Laura Guaglio, psicologa e psicoterapeuta, spiegava come l’idea di sentirsi a disagio in una situazione che prima era percepita come la normalità. Importante, in tal senso, era parsa l’iniziativa del Ministero della Salute che dal 27 aprile aveva attivato un numero verde, disponibile dalle 8 alle 24, 7 giorni su 7, per fornire suggerimenti e supporto al fine di superare il forzato isolamento sociale. Grazie al coinvolgimento di 500 psicologi d’emergenza e 1500 psicoterapisti, in poco meno di due mesi, le telefonate avevano superato le 50mila.
Le motivazioni erano legate a stati d’ansia (14%), depressione (13%) o più frequenti stati di preoccupazione generalizzata e altre problematiche pregresse emerse a causa dell’emergenza (oltre il 40%). Molti avevano, poi, manifestato problemi di irritabilità (2%), disturbi del ciclo sonno-veglia (2%) e problemi di relazione (1.2%). Con la fine del lockdown era raddoppiato anche il numero di chiamate per ricevere sostegno nell’elaborazione del lutto (dall’1.6% al 3.2%). Ciononostante, a giugno il servizio era stato interrotto per consentire il ripristino dell’assistenza psicologica attraverso la più tradizionale rete di strutture del Servizio Sanitario Nazionale. Di certo, non un fiore all’occhiello del nostro Paese.
In tema di supporto interiore, infatti, l’Italia risulta da tempo carente tanto nell’offerta quanto nella promozione: servizi e strutture di ascolto, soprattutto se gratuiti, sono sempre più insufficienti, relegando la salute mentale alla sola assistenza privata, ovviamente per chi può permettersela. Per tutti gli altri, ci sono le associazioni di volontari o il buio delle proprie ansie. E poco o nulla sembra cambiare in prospettiva.
Nelle 168 pagine di Recovery Plan, ad esempio, non una riga risponde alla voce salute mentale, eppure gli esperti parlano chiaro: dalla pandemia non si esce senza investimenti sul benessere psicologico del singolo, quindi della collettività. In Italia, invece, non si investe per la cura della mente da oltre vent’anni. O, meglio, si investe poco. Per inquadrare il problema, basti pensare che, con l’avvento della crisi economica, il 2% in più della popolazione ha corso il rischio di disagio psichico, con oltre un milione di cittadini che ha manifestato il bisogno di cure e un incremento del 40% di disabilità legate alla salute mentale. A tale aumento, tuttavia, non è corrisposto l’adeguamento delle risorse erogate, bensì la loro riduzione. Nonostante l’impegno assunto nel lontano 2001, infatti, le Regioni non hanno mai rispettato l’obiettivo del 5% dei fondi sanitari locali da indirizzare alla tutela psicologica dei loro cittadini. La media nazionale si aggira intorno al 3.5%.
Come se non bastasse, sottolinea Fabrizio Starace, presidente della Società italiana di epidemiologia psichiatrica – già membro della task force di Colao per l’emergenza coronavirus – nel 2025 si stima che mancheranno oltre 16mila specialisti e, nello specifico, mille specialisti psichiatrici, ma già ora il personale dei dipartimenti di salute mentale è in grado di rispondere ad appena il 55% del fabbisogno assistenziale. A peggiorare la situazione la pandemia, che sta negando supporto a quei tanti che, invece, ne avrebbero bisogno. Al di là dell’utilizzo dei farmaci, infatti, nei periodi di massima criticità e di zone rosse alternate, sono mancate le visite in studio o a domicilio, i centri diurni parzialmente o del tutto chiusi ed è stato difficile, per i parenti, visitare chi si trovava in una comunità. Ma dati, ufficiali e certi, sono di raro reperimento.
Uno dei principali ostacoli quando si tenta di affrontare il discorso consiste, infatti, nella ricerca di numeri e dossier che forniscano una visione completa e aggiornata. Quelli attualmente disponibili, certificati dai rapporti annuali del Ministero della Salute, sono fermi al 2018 e fanno riferimento alla sola assistenza psichiatrica. A essi, però, sfugge tutta la popolazione che soffre di un malessere che può essere affrontato con sedute private di psicoterapia cui accede soltanto chi ne ha facoltà economica a discapito dei tanti che non ne hanno.
Quando The Lancet aveva previsto fenomeni di logoramento (bornout), assenteismo e perdita della produttività effettivamente riscontrati in questi mesi, ricordando quanto avessero condizionato la vita a Ground Zero o nelle aree focolaio di Ebola e SARS, nessuno, in questo Paese, se ne era preoccupato. Quando Elke Van Hoof annoverava gli operatori sanitari, i bambini, gli under 30, gli anziani o, più in generale, i disabili, i poveri, le persone già vittime di disturbi legati alla sfera psicologica tra i soggetti più esposti, nessuno considerava doveroso un intervento immediato. Oggi, se succede, si fingono dibattiti cui seguono zero provvedimenti.
Da sempre, la psicologia del trauma lancia il suo allarme e, nonostante la pandemia stia facendo da megafono, quanto lo stato di salute del singolo – anche mentale – sia, nei fatti, una questione sociale non smuove chi di dovere, impedendo di prendere la sofferenza là dove nasce. Nella stessa ottica – ha ben scritto Giuliano Granato (PaP) –, l’incremento degli ansiolitici, in Italia (e, probabilmente, anche altrove) rappresenta il tentativo individuale di uscire fuori da un disagio che, invece, è collettivo. E adesso che l’altro è pericolo e salvezza, fuga da e per, il nemico da cui difendersi e l’amico da cui tornare, ora che il nostro io è cambiato e con esso ogni punto di riferimento, quell’investimento – stimato intorno ai due miliardi e mezzo di euro – non può più attendere. Quel dibattito va fatto e senza alcuna retorica. L’unica che aleggia quando il tema è la cura della mente.
Nessuno si salva da solo, ripeteva Papa Francesco in una surreale Piazza San Pietro. L’esperimento stava appena avendo inizio. Noi speravamo ancora di uscirne migliori. Oggi speriamo a malapena di venirne fuori.