Marco Malvestio, nell’introdurre il suo Annette (Wojtek Edizioni), lo descrive come una lunga lettera d’amore. L’autore sperimenta con le forme narrative, passando dall’autofiction alla biografia romanzata al saggio, nel tentativo di imprimere su carta il personaggio di Annette, pornoattrice attiva nel periodo dei primi anni Duemila, nonché rovente ossessione del narratore. Vengono così ripercorse le tappe e le prodezze più significative della carriera dell’attrice attraverso il filtro analitico-erotico dello sguardo dell’io narrante con dichiarato intento di comporre, sì, un’ammirata epopea di Annette ma anche, e più profondamente, di andare a fondo, fino in fondo al sentimento che lega la donna sullo schermo e l’uomo che attraverso lo schermo la guarda.
Com’è, infatti, possibile avvertire un legame così forte con qualcuno che non si conosce davvero? E da cosa, da dove, scaturisce l’illusione o, se vogliamo, la presunzione di essere in possesso di una conoscenza così totale dell’altro da potervisi quasi sostituire? Da provare disgusto asfittico al pensiero che nulla, nella propria esistenza, possa aspirare alla perfezione esperita nella relazione con un altro che ci si offre disponibile al momento del nostro desiderio e che, però, rimane invariabilmente simulacro?
L’indagine di Malvestio, sebbene specifica, si espande inevitabilmente a toccare i tasti più o meno scoperti del modo contemporaneo di intendere le relazioni, il desiderio, il sesso, l’amore da quando quel colossale fenomeno pop chiamato pornografia è accessibile a tutti, in tutti i momenti della giornata.
Per quanto ci si soffermi, nel dibattito pubblico, su quegli aspetti della pornografia che titillano l’organo frigido della curiosità umana – quali celebrità hanno girato un filmino hard e con chi, se le donne siano provviste o meno della facoltà di eccitarsi guardando porno, se qualche ragazzino sia effettivamente diventato cieco a furia di consumare frame dopo frame di scene spinte a scopo onanistico, e se, come risulta dall’ultimo rapporto di un’università californiana rinomata per i suoi studi, proiettare sul tv 52” del salotto uno qualsiasi dei suddetti film faccia davvero bene alla vita di coppia come dicono – non capita spesso di riflettere, invece, sulla pervasività e sull’influenza che la pornografia ha avuto e ha tuttora nella costruzione del nostro io desiderante e dell’intero campionario del desiderabile.
Se da una parte, come affermano sostenitori e sostenitrici del porno, le produzioni del cinema a luci rosse – tanto quelle mainstream quanto quelle dedicate al mercato di nicchia dei vari feticismi – danno ampia e libera rappresentanza a qualunque recondita fantasia e sperimentazione senza discriminazione per i desideri dello spettatore, è pur vero che quello della pornografia è un mondo di finzioni, performance, costruzioni narrative.
L’intimità che lo spettatore sperimenta con gli interpreti della scena è di certo un’intimità senza pari: viene difficile immaginarsi un momento in cui si è altrettanto vulnerabili di quando si è soli davanti allo schermo coi pantaloni calati. Malvestio indugia più volte su questo particolare tipo di fragilità. In qualche modo, e questo è un pensiero che sfiora il lettore, è come se anche chi guarda facesse dono di sé al film, offrendosi vulnerabile ai suoi interpreti, come se il consumo fosse complice e non solitario. La complicità sembra aumentare con l’aumentare delle umiliazioni e delle degradazioni in cui si esibisce l’attrice.
Nella penombra isolata della propria privacy il narratore si confessa allo schermo, ad Annette e a se stesso. A questa intimità senza giudizio, senza implicazioni, senza il contatto della carne con la carne, si assuefà fino a sprofondare nell’ossessione, nella venerazione pura del corpo virtuoso e virtuale della pornostar. Annette assurge da oggetto del desiderio a mistica icona di libertà e spudoratezza. Il narratore, più che amare Annette, è invaghito, attratto, irretito da ciò che lei rappresenta per lui. Potremmo persino spingerci ad affermare che Annette sia in un certo senso sua maestra e mentore, che l’io narrante sia innamorato di quanto di sé ha lasciato in Annette e delle sue elucubrazioni su di lei.
C’è una costante nel racconto maschile della pornostar come categoria: l’esistenza tutta dell’attrice è sublimata dalle sue performance sessuali immortalate su pellicola e lei cessa di essere una donna. Non propriamente nel senso che, sottoposta allo sguardo maschile, si muti in oggetto. La pornostar diventa un archetipo di potere. Che domini o venga dominata, è lei il centro, l’elemento vitale della scena. Smaschera il desiderio davanti a se stesso e lo espone al suo patetismo, svirilizza il maschio e gli si oppone non come forza antagonista, ma come guida sapiente cui abbandonarsi.
Al narratore di Annette, la protagonista appare come una figura conturbante di misteriosa potenza ultraterrena. Il suo tentativo di immaginarne la vita fuori dal set è tanto un modo per avvicinarla a sé, umanizzarla, quanto un modo di escogitare per lei nuovi scenari narrativi in cui sprigionare quel potere lussurioso immaginato. L’incontro con la donna vera, fatta di carne e ossa e incombenze della quotidianità, è destinato a essere deludente poiché lei si rivelerebbe, come lui, fallibile e caduca. Un affronto insopportabile.