La dottoressa Anna Marciano, classe 1997, dopo la laurea magistrale in Psicologia all’Università Federico II, ha scelto e ottenuto un tirocinio presso il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’Ospedale del Mare, a Napoli. Lavora come coordinatrice presso la comunità alloggio Casa Crisalide a Ottaviano (NA), per adulti con disagio psichico, e opera in ospedale attualmente come specializzanda. Intanto, frequenta una scuola di psicoterapia con approccio sistemico-relazionale. L’abbiamo intervistata.
Dottoressa, come mai dopo la laurea magistrale in Psicologia ha scelto di lavorare nell’ambito della psichiatria?
«È stata una scelta fortemente voluta perché credo che alla base di ogni paziente psichiatrico ci sia un alto potenziale, un’intelligenza e una profondità altamente sviluppate. Ritengo, quindi, che un approccio dal punto di vista della psicologia, oltre che quello imprescindibile e necessario farmacologico, possa aiutare a far sviluppare le risorse che i pazienti stessi sono».
Ha incontrato ciò che pensava di incontrare?
«Sì, sicuramente ero molto entusiasta ma anche un pizzico spaventata: toccare con mano i pazienti mi ha fatto entrare in contatto con la loro vulnerabilità, ma anche, soprattutto, con la labilità dei confini fra salute e malattia mentale».
Cosa è necessario nell’approccio con i pazienti?
«La chiave, secondo me, è non avere paura. Nel momento in cui hai paura del paziente, già lo stai allontanando, già stai prendendo le distanze, già lo stai guardando come diverso. Se loro capiscono che hai paura, sanno che ti possono raggirare».
Raggirare in che senso?
«Provo a spiegarlo con qualche esempio. In comunità ci sono delle regole. Delle regole create per il bene del paziente. Se il paziente fuma quaranta sigarette al giorno, stabiliamo che può fumarne una ogni mezz’ora, insomma cerchiamo di mettere un freno. Nel momento in cui per mettere il freno, alla richiesta del paziente di una sigaretta gliela neghi, questi potrebbe aggredirti. Se gliela dai, invece, è fatta. Apprende una modalità per ottenere una cosa che sa che è stata funzionale e quindi la ripeterà. Il passaggio è semplice, è una questione di contenimento. La regola che il paziente tanto odia in realtà lo fa sentire contenuto. Questo è poi un sistema che interiorizza e dovrebbe portare al di là della comunità, nel vivere comune, gli consente di gestire la sua patologia fuori».
Alla base del suo credo, come ci sta spiegando, c’è il rispetto per ogni paziente. Cosa potrebbero fare la società, il servizio sanitario nazionale e le famiglie per rispettarli ogni giorno di più?
«La cosa maggiormente necessaria, la cosa più importante, è la rete. Spesso si ha difficoltà a fare rete già nelle strutture fra le varie figure. Assistenti sociali, psichiatri, psicologi. Il problema poi aumenta a dismisura fuori. In struttura si fa un lavoro riabilitativo, già molto difficile. Ma una volta fuori il paziente avrà una rete pronta a sostenerlo? Ci sarà il contenimento di cui parlavo prima?».
Come crede possano essere supportate le famiglie di persone affette da malattie psichiatriche?
«Il supporto potrebbe essere dato proprio da una rete valida all’esterno. Quando il paziente rientra in famiglia deve avere la possibilità di essere seguito anche al di fuori. Questo attualmente avviene in Italia, il paziente va a visita nei centri di salute mentale, ma forse non con la frequenza di cui necessiterebbe. Questo vale per chi ha famiglia. Per coloro che non ne hanno una è la prima cosa che manca e anche quella che fa più male. Il paziente in struttura impara a convivere con delle persone che si prendono cura di lui, interiorizza questo modello; quando esce, se non ha famiglia né qualcuno che si comporti come tale, è un problema. Come ha scritto John Donne, nessun uomo è un’isola».
Come si misurano gli operatori che ci lavorano con la paura?
«L’operatore che ci lavora in alcuni casi ha paura. Per quanto sia abituato a lavorare con una certa utenza, sentirsi minacciati può innescare questo umanissimo sentimento».
Chi opera nel suo settore si sente qualche volta impotente? Come fa i conti con questa sensazione?
«L’impotenza è la prima cosa con cui ti misuri. La tocchi con mano subito. Poi ci fai i conti per tanti anni, credo. Quando all’inizio sono entrata in comunità, mi è successo di voler tenere, di voler aiutare a tutti i costi un paziente che purtroppo poi è andato via. Forse, anzi sicuramente, avrò fatto qualche errore, però mi è stato detto da colleghi con molta più esperienza di me che può capitare e bisogna fare i conti con l’impotenza perché non possiamo seguire tutti. Si può aiutare chi si vuol far aiutare ma dall’altra parte è molto importante anche aiutare l’altro a farsi aiutare. Il problema è che chi entra nell’abito della cura ha l’obiettivo di curare tutti. Ed è difficile capire che non sempre nella realtà è possibile».
Cosa le stanno insegnando i suoi pazienti?
«Tutto. Le rispondo citando Donald Winnicott nel suo libro Gioco e realtà. Ha scritto: ai miei pazienti, che hanno pagato per insegnarmi. Credo che la mia esperienza di tirocinio prima e lavorativa poi abbia cambiato il mio modo di vedere le cose. Ho imparato a fare molta più attenzione a come si parla, a quando si parla, al linguaggio utilizzato. Ma anche a soffermarsi sull’altro, ad ascoltare. Si studia per questo, ma l’applicazione è un’altra cosa. E soprattutto mi ha insegnato a non pormi di fronte, ma sempre accanto all’altro, perché è da quella visuale che si riesce a capire meglio di cosa si sta parlando».
In una società ideale, come sogna possano diventare il mondo della malattia e quello della salute mentale un domani?
«Una volta un paziente quando facevo il tirocinio, ero appena arrivata, non mi avevano ancora presentata e non sapeva chi fossi, nel parlare di me disse: “è una ragazza alla quale fuori di qui non mi avvicinerei mai perché seppure fossimo al bar al banco a prendere il caffè, so che sono diverso quindi non mi avvicinerei”. Ecco, questo vorrei non succedesse. Vorrei si azzerassero questa distanza e questa continua separazione».