Amo Napoli perché mi ricorda New York, specialmente per i tanti travestiti e per i rifiuti per strada. Come New York è una città che cade a pezzi, e nonostante tutto la gente è felice come quella di New York.
Pochi giorni fa ricorreva l’anniversario della morte di un genio che riuscì a prendere l’arte a mani nude per modellarla secondo i suoi schemi: Andy Warhol.
Da annoverare sicuramente tra le personalità più influenti del Novecento, pilastro della Pop Art e figura oltremodo particolare, fu un artista a tutto tondo: pittore, regista, scultore, produttore e altro ancora. Riuscì a rendere raffinata ogni cosa, dalle bottiglie di Coca Cola alle lattine di zuppa, elaborando tutte le immagini tipicamente americane secondo il concetto dell’arte che deve necessariamente essere consumata, come un prodotto commerciale. Nel 1962 fondò la Factory, uno studio dove lavorava con i suoi collaboratori ma anche un punto di ritrovo per ogni genere di artista.
Credo di essere una delle persone più gelose del mondo. La mia mano destra è gelosa se la sinistra dipinge un bel quadro.
Di quello stesso anno è l’opera Do it yourself – un acrilico, pastello e letraset su tela – che esprime con forza ciò che l’arte rappresentava per Warhol: una funzione di “riempimento”. Secondo il pittore, infatti, l’arte in sé non porta traccia del sublime ma ha soltanto lo scopo di colmare un vuoto. Do it yourself è un lavoro lasciato a metà di proposito, come a voler chiedere l’intervento dello spettatore in modo silenzioso e quasi ironico.
L’idea che emerge è a tratti diversa da quella schopenhaueriana. Per il filosofo, infatti, la funzione artistica non è quella di riempimento ma di catarsi. L’uomo, attraverso la contemplazione, ha una possibilità di fuga, di elevazione, di estraniamento dal reale. Andy, invece, abolì l’idea di sublime e sembrò quasi nutrire un forte attaccamento alla realtà che affiora in ognuna delle sue opere.
Come ogni artista che si rispetti, fu un personaggio atipico e, tra tutti, il più sui generis in assoluto. Fu un uomo svampito ed eccentrico ma, senza dubbio, insicuro e terrorizzato dalla solitudine, il motivo che lo portò a circondarsi di persone di ogni tipo.
Tra queste va ricordata Edie Sedgwick, la donna che rappresentò per lui una vera e propria ossessione. Si può parlare di Edie come di un’icona degli anni Settanta. Era affascinante, bellissima e – soprattutto – eccessiva, esattamente ciò che serviva per diventare la musa ideale di Warhol. L’eccesso era il perno della sua esistenza.
Quella tra i due fu un’amicizia squilibrata che portò la donna all’autodistruzione. Entrò, infatti, nel tunnel delle droghe e fu ricoverata in un ospedale psichiatrico.
Questo loro legame viene perfettamente rappresentato nel film Factory girl, di George Hickenlooper, che descrive lo scenario di quegli anni, la figura inconsueta e affascinante della donna e il suo rapporto malato con Warhol.
Una persona negli anni ‘60 mi ha affascinato più di chiunque altro abbia mai conosciuto. Il fascino che ho subito era probabilmente molto vicino ad una specie d’amore.
Tuttavia, Edie, per Andy, non fu altro che una musa. L’artista, in genere, tende a spostare la propria attenzione su altro nel momento in cui trae tutto ciò che gli è necessario per la sua opera. Senza dubbio, ne viene fuori una concezione crudele della sua figura, caratterizzata dalla capacità di instaurare un legame solo al fine di sfruttarlo per ciò che sarà sempre l’essenza della sua vita, il punto focale: l’arte. Quest’ultima, infatti, non lascerà il posto a nient’altro, accompagnando il soggetto in una trasformazione continua della propria persona.
L’artista è malato e nella malattia trova le radici della sua ispirazione. È distruttivo ma consapevole, quasi fiero, del suo potere.
Andy: “Dici che si ricorderanno di noi?”
Edie: “Dici quando saremo morti? Penso che la gente si ricorderà di come tu hai cambiato il mondo.”
Ed è vero, Andy Warhol ha sicuramente cambiato il mondo. Fu un esteta, l’amante del bello per eccellenza, l’icona indiscussa del XX secolo. Un personaggio che non poteva per alcuna ragione passare inosservato in quella banalità che regnava incontrastata e da cui lui riuscì comunque a prendere ispirazione.