Ylenia e Gessica sono i primi nomi che, in questo 2017 appena iniziato, avremmo già potuto aggiungere alla lista dei vari Marina, Luana, Sara, Katia, Vania, eccetera eccetera… Elencarli tutti è difficile perché anche nel 2016 il loro numero è stato impressionante. Solo lo scorso anno, infatti, in Italia le donne uccise dai rispettivi compagni sono state 116. Ripeto, centosedici.
Nomi di persone che non conosciamo, nomi che sentiamo lontani. Eppure, potrebbero essere quello di lei, di nostra sorella, di nostra madre, della nostra migliore amica. Strangolamento, colpo di pistola, accoltellamento, benzina – come nell’ultimo caso della ragazza di Messina per fortuna salvatasi – sono solo alcune delle modalità di eliminazione scelte che arrivano al culmine di mesi, o forse anni, fatti di intimidazioni, botte, stalking. E poi – come nel recentissimo episodio della giovane riminese – quella volontà non di uccidere, no, ma di arrivare a sfigurarla, sfregiarla, ad annullarne l’identità, a cancellarne la bellezza del viso con l’acido. Con quell’acido gettato a divorare le espressioni del suo sentire, a spegnere la luce dei suoi occhi, perché “se non sei mia, non devi essere di nessuno”.
Parliamo di femminicidio, quella parola che sentiamo troppo spesso tuonare nei tg e che troppo di frequente viene persino minimizzata o non presa con le giuste misure. Ma perché chiamarlo così? Perché denominare e caratterizzare questo tipo di omicidio in maniera specifica? Se lo chiedono in molti, in tanti non lo capiscono, eppure il nesso c’è ed è evidente: perché sono donne ammazzate in quanto donne. C’è un movente ben preciso alla base del gesto efferato ed è, infatti, quel meccanismo perverso che scatta nella mente di alcuni individui secondo il quale la donna è da considerarsi “cosa privata”, rendendole impossibile ogni esercizio di autodeterminazione. Dunque, era la libertà di Roberta a dare fastidio, era la voglia di cambiare di Micaela a non essere tollerata, era la volontà di recidere un rapporto diventato tossico, con un fidanzato troppo geloso, ossessivo, a non essere accettata. Era la loro vita.
C’è qualcosa di malato, nella nostra società, che continua a generare mostri, qualcosa che probabilmente ci portiamo dietro anche come retaggio della cultura patriarcale, la quale ha sempre considerato la donna in maniera subalterna, funzionale alla famiglia, al padre, al marito, ai figli, mai a se stessa. In una fetta del nostro Paese ancora troppo larga, dunque, non appena una giovane, e non solo, manifesta la volontà di slegarsi dai lacci di certe imposizioni sociali, si persiste nell’additarla moralmente, arrivando addirittura a coprire i soprusi con i “se l’è cercata”. Le lotte femministe da Franca Viola fino ai movimenti degli anni Settanta – che hanno portato alle leggi sul divorzio e sull’aborto, nonché al superamento del cosiddetto “delitto d’onore” e del “matrimonio riparatore” – hanno decisamente contribuito al processo di emancipazione, ma non hanno arrestato l’ondata di violenze e femminicidi. Se vogliamo, poi, analizzare il fenomeno da un punto di vista globale, ci rendiamo conto che esso è una piaga non solo dei Paesi con dei caratteri religiosi predominanti, ma anche, e con dati preoccupanti, delle civilissime democrazie scandinave, sempre attente e avanzatissime sul piano dei diritti declinati al femminile. Anche nelle sempre più fredde Norvegia, Svezia, Danimarca, infatti, tra la solitudine che si amplifica e il senso di appartenenza a una comunità che si sgretola, pare che la libertà della donna dia fastidio perché costringe una certa categoria di maschio a doversi misurare su tutto con le capacità di chi ritiene inferiore, a doversi confrontare con la sua totale indipendenza, a doverne subire la concorrenza e la competizione, a dover essere addirittura scartato non solo sul piano sentimentale.
Ma c’è qualcosa di differente tra noi e loro, ovvero il fatto che in quelle realtà la lotta al pregiudizio di genere, e alla violenza che ne consegue, parte fin da subito con dei determinati piani scolastici, i quali pare stiano portando a dei risultati promettenti. Qui invece siamo stati costretti tutti ad ascoltare le deliranti teorie manifestate con orgoglio dai fanatici del “Family Day”, scesi in piazza per contestare – oltre che la legge sulle Unioni Civili – anche l’unica cosa più o meno decente all’interno della più che deprecabile “Buona Scuola” del governo Renzi: il timido tentativo di introdurre progetti di educazione affettiva e sessuale tra le attività formative offerte agli studenti. Come se non bastasse, poi, ci siamo sorbiti pure le esternazioni più disparate su quella fantomatica “teoria gender” di cui si sono riempiti la bocca, aspirante – a detta loro – a corrompere i nostri fanciulli, distruggendo i comodi modelli culturali sui quali da sempre si sono cullati e che da secoli servono a strozzare le libertà.
Le colpe, però, non si possono attribuire sempre a un discorso religioso. Continuare ad additare sempre e solo l’ingerenza dei preti nelle vite di tutti, anche di chi non crede, è sbagliato. Ora bisogna inevitabilmente inchiodare anche la Politica alle sue responsabilità. Quando in cabina elettorale afferriamo la matita, infatti, il segno che tracciamo, lo tracciamo anche per queste tematiche, e chi gestisce la cosa pubblica non può lavarsi le mani su tali questioni di primissimo rilievo. Le conseguenze sociali sono notevoli per tutti, e si estendono anche sul piano delle prospettive lavorative e sugli aspetti ordinamentali. Possiamo fare dei rapidi cenni, partendo dalla scarsa prospettiva di carriera che il nostro Paese offre alle donne fino ai problemi legati alla “maternità”, per poi passare anche all’altra faccia della medaglia, ovvero quella che si abbatte sugli uomini, ma che affonda le sue radici sempre nel pregiudizio di genere. Ci riferiamo al congedo di paternità – che in Italia è brevissimo – e al dramma di molti padri separati, entrambi aspetti che sono frutto del considerare principalmente, se non esclusivamente, la donna detentrice dei requisiti idonei alla responsabilità sul minore.
Gli anni del “berlusconismo” – come per tutto il resto – sono stati devastanti anche per questo. Ora bisognerebbe dire alle cariche istituzionali che non servono a nulla le passerelle nel paesino calabrese dove una ragazzina è stata squallidamente stuprata da cinque bestie tra l’omertà generale. Non servono a nulla fino a quando, senza mezze misure e a chiare lettere, non si dirà che è uno schifo che la Rai, servizio pubblico, censuri ancora ogni tentativo di affrontare il problema, come la puntata del programma di Iacona, Presa Diretta. Bisogna dire pure alla Boschi che non serve a nulla manifestare un certo disagio in qualità di donna nelle interviste televisive se poi lei stessa, nel tremendo dibattito referendario, si è abbassata a dire che “le donne dovrebbero votare Sì, perché nel fronte del No non c’è rappresentanza femminile”, insultando le italiane, ritenendole incapaci di decidere nel merito della questione, oltre che sostenendo il falso. È necessario frenare il turpiloquio dilagante, con tanto di espressioni sessiste, sdoganato da personaggi come Salvini. E, infine, bisognerebbe invitare i vari Adinolfi, Miriano, Gandolfini a riflettere bene prima di coricarsi, perché il loro arroccarsi su determinate posizioni risulta deleterio per tutta la comunità.
La sfida è, senza dubbio, culturale ed educativa e deve partire dalla scuola, ma l’impegno deve gravare su ognuno di noi, indistintamente. Tutti abbiamo il compito di insegnare ai maschietti e alle femminucce che non ci sono differenze, che la parità e l’uguaglianza devono essere i nostri fari. Sì, anche ai maschietti, perché i pregiudizi di genere coinvolgono tutti. La “teoria gender” esiste solo per chi ha paura che i sogni di una bambina possano identificarsi in Rita Levi Montalcini o Margherita Hack, esiste per quanti ritengono che non sia opportuno per un uomo mostrare pubblicamente la sua emotività, la sua fragilità, le sue lacrime, oppure semplicemente indossare dei pantaloni rosa, come nel caso dell’adolescente che si è tolto la vita a seguito dei continui insulti sul web da parte dei suoi compagni, che schernivano la sua personalità e la sua voglia di esprimersi.
Si può essere quello che si vuole nel rispetto degli altri, mentre le mani si alzano solo per cogliere i frutti dell’amore, che sono colorati, diversi, vivi, buoni. Questo è quello che bisognerebbe far capire anche alla ragazza siciliana che difende il suo carnefice. L’amore non è quella cosa che ha vomitato Barbara D’Urso in diretta televisiva. L’amore è una mela sana, dolce, succosa, che non ha mai il sapore aspro, perché quando esso si fa acido, e vuole dilaniare la sua buccia e far marcire la sua polpa, cara ragazza, non è amore.