Il nuovo Presidente Joe Biden lo aveva detto prima ancora di essere eletto che gli Stati Uniti d’America sarebbero rientrati nell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e negli Accordi di Parigi del 2015, sanciti tra gli Stati membri della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. E, nei giorni scorsi, il Segretario di Stato Anthony Blinken si è pronunciato sul rientro del governo a stelle e strisce nel Consiglio ONU per i diritti umani, a tre anni dall’uscita voluta dall’ex inquilino della Casa Bianca.
Si apre una nuova stagione USA per l’impegno nella salvaguardia dei diritti umani nel mondo? La risposta è affermativa, ma quali saranno le difficoltà per un Paese che al suo interno ha visto riemergere, negli ultimi anni e in maniera diffusa e violenta, i fenomeni del suprematismo bianco e della discriminazione nei confronti della popolazione afroamericana?
Nel 2018, Donald Trump giustificò l’uscita degli USA dal Consiglio per i diritti umani dicendo che l’istituzione era strumentalizzata dai nemici di Israele, così come attaccò l’OMS, in seguito, per i suoi rapporti con il governo di Pechino, perfino ironizzando, nel pieno dell’ondata della crisi pandemica, nel definire la COVID-19 come una kung flu, un’influenza probabilmente nata in qualche laboratorio cinese. Per quanto riguarda l’emergenza climatica, infine, il Tycoon ha fatto compiere drammatici passi indietro alla legislazione sulla conservazione e la difesa dell’ambiente, in nome degli interessi dei gruppi affaristici privati dell’economia e dell’industria statunitense.
In questi giorni, tuttavia, Anthony Blinken sta annunciando il ritorno all’impegno per i diritti umani: «Siamo convinti», ha detto il Segretario di Stato «che il modo più efficace per riformare e migliorare il Consiglio – istituto fondato nel 2006 – è impegnarsi con esso», aggiungendo che il Paese americano si impegnerà per aumentare le possibilità operative di quell’importante luogo di dibattito per coloro che combattono la tirannia e l’ingiustizia in tutto il mondo, un compito che fa parte del potenziale politico e sociale dell’organismo internazionale.
Il panorama del mancato rispetto e delle violazioni dei diritti umani sull’intero pianeta, intanto, è davvero avvilente. Per parlare soltanto degli avvenimenti più recenti, in Myanmar, nei primi giorni di febbraio, i militari hanno fatto un colpo di Stato, destituendo e imprigionando la 74enne leader della Lega Nazionale per la Democrazia Aung San Suu Kyi. La storica paladina dei diritti umani, comunque, in questi ultimi anni era stata anche lei accusata di non essersi opposta, una volta acquisiti prestigiosi incarichi governativi nel suo Paese, alla feroce repressione militare delle minoranze etniche, soprattutto quella Rohingya di religione musulmana. Una parte della popolazione birmana, soprattutto i giovani studenti, è scesa in piazza per protestare contro il governo golpista, ma i militari hanno usato i cannoni d’acqua contro i manifestanti e si sono opposti alla richiesta statunitense di incontrare la politica birmana, Premio Nobel per la Pace nel 1991.
Il caso Navalny, intanto, preoccupa l’Unione Europea, tanto che l’Alto rappresentante Josep Borrell si è pronunciato per possibili sanzioni contro il governo russo per la spietata china autoritaria contro la libertà d’espressione. Dopo il tentativo di assassinare Alexej Navalny e il successivo imprigionamento del leader dell’opposizione, Borrell è andato a Mosca per cercare di fermare, per via diplomatica, il deterioramento dei rapporti tra Russia e UE. La reazione russa, però, è stata estremamente negativa e il Ministro degli Affari Esteri Sergej Lavrov ha continuato a parlare di ingerenze negli affari interni da parte di alcuni Stati membri dell’associazione europea, che spingevano per le sanzioni contro Mosca, con l’intento di fermare la costruzione del gasdotto Nord Stream 2 che trasporta il gas in Europa attraverso il Mar Baltico. In un’apparizione televisiva, Lavrov ha precisato che il governo moscovita sarebbe pronto perfino a rompere i rapporti con l’Unione Europea nel caso di sanzioni in settori importanti per l’economia della federazione.
Nella parte settentrionale del continente africano, tra gennaio e febbraio, ci sono stati due tristi anniversari: i cinque anni dal rapimento al Cairo di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano vittima di torture e poi assassinato, e un anno dall’arresto del giovane Patrick Zaki, studente all’Università Alma Mater di Bologna, sempre imprigionato nel carcere di Tora, dopo continue sentenze di rinnovo della custodia cautelare e con l’accusa di propaganda sovversiva. Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, ha parlato di detenzione arbitraria e crudele. Di recente e sulle pagine del nostro giornale, ha ribadito che la detenzione preventiva è la prassi con cui il sistema giudiziario egiziano punisce dissidenti, attivisti, ricercatori.
In un rapporto del dicembre scorso, infine, AI ha denunciato che in almeno 60 Stati le violenze delle forze di polizia e l’eccessiva delega a queste ultime per attuare le misure di contrasto alla pandemia da COVID-19 abbiano causato violazioni dei diritti umani e in alcuni casi peggiorato la crisi sanitaria. La crisi pandemica e quella più ampia ambientale che la contiene, insomma, ha provocato un giro di vite delle restrizioni delle libertà fondamentali in larga parte del pianeta Terra.
La nuova stagione per la difesa dei diritti umani, inaugurata dall’amministrazione della più grande democrazia del mondo, avrà un compito arduo, quindi, visto anche l’esito della telefonata di questi giorni tra il Presidente americano e quello della Repubblica Popolare Cinese Xi Jinping. Alla preoccupazione espressa da Joe Biden sul rispetto dei diritti umani nel Paese asiatico, il leader cinese ha risposto che l’argomento riguarda gli affari interni della sua nazione. Ormai, è questa la risposta standard dei governanti del mondo e il passo successivo è ovvio: tutti i cittadini che criticano lo stato delle cose sulla libertà di espressione e di associazione vengono accusati di essere nemici dello Stato, spie o terroristi al soldo di qualche potenza straniera.
Negli USA, infine, l’assalto dello scorso 6 gennaio della destra populista e armata a Capitol Hill ha dimostrato che anche se il potere personale di Trump è finito, esiste ancora il trumpismo. Il procedimento di impeachment nei confronti dell’ex Presidente, con l’accusa di aver istigato all’insurrezione, forse non porterà a un’incriminazione. Le immagini del dispiegamento delle forze della Guardia Nazionale per difendere il passaggio democratico alla presidenza, tuttavia, hanno costituito la messa in scena drammatica dell’imbarbarimento della politica statunitense e, soprattutto, lo svelamento dell’esistenza di un’America profonda che da tempo non si riconosce e non si sente rappresentata né dal metodo né dai fini del gioco democratico.