Amedeo Maiuri appartiene alla leggenda della storia archeologica, alla generazione degli Schliemann, gli Orsi, gli Evans, i Carter, quella dei picconi e della polvere, degli studi classici, dell’intuito e della passione.
Fu il grande scopritore di Pompei e delle antichità campane, infaticabile la sua attività sul campo che gli valse l’appellativo di “Archeologo errante”. Pur conoscendo le più moderne tecniche del suo tempo, scavava quasi come un rabdomante, guidato da un furore lirico, perché amava profondamente il mondo degli antichi e voleva liberarlo, restituirlo alla vita.
Dal 1913 al 1924 fu responsabile della Missione Archeologica Italiana nell’Egeo, con la carica di Direttore del Museo Archeologico di Rodi e di Soprintendente degli Scavi nel Dodecanneso. Al rientro in Italia, fu nominato Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli e degli Scavi di Ercolano e Pompei. Per i suoi meriti scientifici fu socio dell’Accademia d’Italia e si divise incessantemente tra le ricognizioni frequentissime negli scavi e gli impegni di ufficio, tra lo studio quotidiano e l’attività intensa di scrittore, le ore dedicate ai doveri di rappresentanza. “In realtà fu un personaggio prevalentemente pubblico”, sottolinea Umberto Pappalardo, “quindi un uomo coinvolto nel flusso degli eventi”. Un funzionario e non un politico. E fu proprio questo rispetto dei limiti dei propri compiti che gli permise di rimanere sempre con lo stesso incarico attraverso tre diversi regimi: la monarchia, l’impero e la repubblica. Sebbene accusato di connivenza con il fascismo, i carteggi dimostrano che non si trovò mai coinvolto in iniziative che potessero essere offensive della dignità umana, ma sfruttò l’arrogante burocrazia del regime per ottenere ingenti finanziamenti, come nel caso degli scavi di Ercolano. La sua attività fu, al contrario, un esempio di umiltà e dedizione, ricca di successi e di grandi amarezze.
Il MANN, il museo che difese eroicamente durante la seconda guerra mondiale – evitandone la distruzione e portando in salvo i materiali, trasferendoli a Montecassino – gli dedica dal 18 gennaio la mostra Amedeo Maiuri. Una vita per l’archeologia, a cura di Umberto Pappalardo, docente di Antichità Pompeiane, con il contributo di Rosaria Ciardiello, Laura Del Verme e Pio Manzo. Nel 2001 il curatore ha acquisito la biblioteca privata dell’archeologo, oggi collocata presso il Centro Internazionale per gli Studi Pompeiani “Amedeo Maiuri” ospitato nel Comune di Pompei e contenente tutta la sua produzione scientifica e pubblicistica, con rispettive edizioni in lingua straniera, e in svariati esemplari, carteggi, foto, cimeli, medaglie, varie onorificenze e perfino la sua livrea azzurra di Accademico d’Italia. In esposizione al piano terra dell’Archeologico fino al 20 febbraio 2017, importanti documenti delle attività di scavo e ricerca, foto d’epoca, taccuini, oggetti, libri e documenti appartenuti al grande studioso.Amedeo Maiuri torna nel suo Museo, dove di fatto abitava, trattenendosi dalle sei del mattino fino alle otto di sera. “Non a caso – ricorda il Direttore Paolo Giulierini – i suoi funerali solenni, filmati dall’Istituto Luce, mossero dal Museo Archeologico per congedarsi all’Università i poli complementari della sua lunga e intensa attività che gli consentirono di valorizzare il patrimonio archeologico dell’Italia negli anni più critici del Paese.”
Produsse oltre trecento pubblicazioni, introducendo già nella prima metà del secolo scorso la prosa letteraria nelle dissertazioni scientifiche dell’archeologia, tanto da poterlo considerare il capostipite della divulgazione archeologica colta in Italia. Un bisogno profondo che, nonostante i gravosi oneri istituzionali e gli impegni scientifici, come ha raccontato la figlia Bianca, lo spingeva a sedere già alle sei del mattino alla scrivania della casa di servizio, sita nel Palazzo Reale di Napoli, per stendere quegli articoli che consegnava periodicamente al Corriere della Sera, molti dei quali confluirono poi, come capitoli nelle varie edizioni delle sue Passeggiate Campane e Vita di Archeologo.
L’esposizione è un omaggio allo studioso che ha saputo dimostrare quanto l’archeologia sia una scienza che deve essere vissuta e condita con l’umanità, un riconoscimento all’uomo colto che ha saputo vivere nel suo tempo, amando il passato ma stando con lo sguardo puntato verso l’avvenire, perché ormai non si può più fare archeologia culturale se prima non si è capito profondamente il messaggio del futuro.
Nelle sale che ospitano i reperti che gli furono tanto cari, l’archeologo rivive come mito di un umanesimo pragmatico e coerente, al servizio della cultura e della comunità.