Sappiamo tutti ciò che è successo in Emilia-Romagna e non ripercorreremo la timeline di un disastro annunciato. Assieme al fango, però, è rimasto altro materiale da spalar via: la propaganda anti-ambientalista perpetrata da chi, in un cambio di rotta, vede un pericolo economico. In questo articolo vogliamo provare a dare ai nostri lettori gli strumenti per comprendere la relazione tra le esondazioni e il cambiamento climatico, così da poter sviluppare un’opinione autonoma e informata al netto di fake news, bot e algoritmi.
Partiamo da uno dei dubbi più diffusi sui social: ma se il cambiamento climatico porta all’innalzamento delle temperature, cosa c’entrano le alluvioni? Qui non parliamo di roghi, estati roventi o ghiacciai che si sciolgono, ma di piogge: com’è possibile? La risposta è nel ciclo dell’acqua. C’è una quantità stabile di acqua sula Terra, che rimane sempre costante: non è distribuita in maniera uniforme – gran parte è negli oceani, una piccola parte è nei ghiacciai e una frazione microscopica è nei fiumi e nei laghi – ma la sua somma complessiva è sempre, sempre uguale.
Questi comparti non sono fissi e immutabili. Infatti, l’acqua che evapora dagli oceani condensa in forma di nubi, entra a far parte di laghi e fiumi – o, in alcuni casi, nei ghiacciai – che portano di nuovo al mare: è un ciclo. Ecco, il cambiamento climatico altera questo ciclo.
L’innalzamento delle temperature porta alla siccità: fa più caldo, piove meno. Già, ma anche se non piove, l’acqua evaporata da oceani, fiumi e laghi non scompare. Abbiamo detto, però, che la quantità d’acqua sulla Terra resta sempre costante: allora che fine fa?
Semplicemente rimane nell’atmosfera, e più fa caldo più l’aria è in grado di immagazzinarla sotto forma di vapore acqueo. Quando si verificano le condizioni per le precipitazioni – cioè quando una massa d’aria calda e umida incontra finalmente una d’aria fredda – tutto il vapore si condensa. Ecco perché le precipitazioni sono così violente: lunghi periodi di siccità creano tanto vapore acqueo che, appena ha la possibilità di “sfogarsi”, lo fa in modo distruttivo. E no, non sono piogge che aiutano la natura e i contadini: le precipitazioni troppo violente distruggono i raccolti perché i terreni non riescono ad assorbire e trattenere l’acqua.
Inoltre, fino a qualche decennio fa si sentiva parlare solo dell’anticiclone delle Azzorre e di perturbazioni di origine atlantica. La primavera era caratterizzata da rapidi passaggi di ondate atmosferiche poco elongate in latitudine e dunque abbastanza veloci. In sostanza si avevano uno o due giorni di brutto tempo e poi di bel tempo: era la tipica accentuata variabilità primaverile.
Con il riscaldamento globale è cambiata la circolazione atmosferica nel Mediterraneo e le ondate sono più lunghe in senso Nord-Sud. Queste ondate più lunghe sono anche più lente, e così, mentre prima si osservava quasi sempre una variabilità accentuata, ora i periodi di “bel tempo” e “brutto tempo” permangono ognuno per più giorni sullo stesso territorio. Nel caso di piogge, queste hanno quindi il tempo di scaricarsi maggiormente su una stessa zona, potendo creare condizioni alluvionali anche nel caso in cui le precipitazioni non siano di per sé veramente eccezionali. (I passi in corsivo sono del fisco dell’atmosfera Antonello Pasini, primo ricercatore presso il CNR.)
Dopo questo viaggio tra nubi e cicloni torniamo al mondo dei commenti sui social con un grande classico: ma quale cambiamento climatico, basta pulire i fiumi e i tombini! Si tratta sicuramente di un intervento di prevenzione utile, ma no, non risolverebbe la situazione: il cambiamento climatico, per un territorio a rischio idrogeologico, è fatale.
L’Italia è un Paese giovane dal punto di vista geologico e l’Appennino è un coacervo di materiali spesso incoerenti: a pochi chilometri si trovano montagne calcaree e colli di terreno sciolti. Versanti e pendii, anche se appaiono stabili, in realtà sono sistemi dinamici che possono dare origine a frane. Questi movimenti di versante possono essere molto lenti, ma anche velocissimi quando intervengono forti precipitazioni che rompono gli equilibri che riguardano il suolo e il sottosuolo: ecco perché si parla di dissesto idrogeologico.
Non solo i terreni in pendenza sono un problema, ma anche le pianure: ogni anno assistiamo a terribili inondazioni. Insomma, la maggior parte del territorio italiano è a rischio: non ci sono tombini che tengano. Allora che fare? Serve un ribaltamento della politica di gestione del territorio che abbiamo portato avanti negli ultimi settant’anni. Riportare i terreni in pendio a boschi e/o al massimo a colture arboree (noccioleti, noceti, oliveti…) è fondamentale, poiché sono in grado di trattenere il terreno superficiale con le radici e di rallentare la velocità di corrivazione dell’acqua piovana (ovvero la corsa della pioggia nei fiumi) che, arrivando tutta insieme, provoca le ondate di piena.
Dall’altro lato, serve aumentare la resilienza dei terreni in pianura: una parola che ormai va di moda ma che viene coniugata in modi improbabili. Le amministrazioni preferiscono azioni che possano velocizzare lo scorrere dei fiumi verso il mare: argini alti, alvei dritti. Come corollario si coltivano in modo intensivo i terreni fin sotto gli argini dei fiumi.
Purtroppo nel tempo questi interventi hanno mostrato tutto il loro limite e oggi siamo qui a contare i morti, i dispersi e le decine di miliardi di euro di danni alle città e all’economia dei territori: negli anni scorsi, Sicilia, Puglia, Liguria e Campania, oggi Emilia-Romagna, domani chissà dove le perturbazioni elongate e rallentate per effetto dei cambiamenti climatici scaricheranno le loro piogge intense e prolungate.
I fiumi vanno rallentati: le piene hanno bisogno di spazi dove espandersi, perché quando raggiungono il mare spesso non riescono a scaricarsi completamente per l’acqua alta. Per farlo, i fiumi andrebbero resi più naturali con meandri e curve e vegetazione al posto di alvei che somigliano ad autostrade. Dall’altro, serve creare casse di espansione: spazi che si riempiono d’acqua quando si superano delle quote limite abbassando l’altezza delle piene.
Ovviamente, questi terreni non possono essere coltivati, se non con vegetazione ripariale (i pioppeti ad esempio) e lasciati inerbiti per il pascolo o la fienagione. Queste azioni di prevenzione contro i dissesti idrogeologici vanno affiancati a una lotta contro il cambiamento climatico: le due cose non si escludono a vicenda, anzi, sono complementari.
Si è assistito a una colpevolizzazione degli ecoattivisti – andate a spalare il fango! (tra l’altro mentre erano già lì a farlo) – che in realtà chiedono da anni azioni di prevenzione e si sono battuti in prima linea contro la cementificazione e la deforestazione di un territorio a rischio. Ma il vecchio dividi et impera funziona sempre, ancor più durante le crisi.
Sì, l’Italia è sempre stata a rischio di dissesto. E, proprio per questo, sarà tra i territori più colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico. Adesso più che mai è necessaria un’alleanza tra forze ecologiste e cittadini: usciamo dalle nostre bolle social, riprendiamo a comunicare davvero.
Contributo di Alfredo e Noemi De Luca