Allarme sicurezza: queste sono alcune delle prime parole che ci vengono in mente se pensiamo al modo in cui i rappresentanti politici, in particolare quelli che affollano le liste di questa campagna elettorale da brividi, raccontano i dati sulla criminalità e la vivibilità delle città, ergendosi ovviamente a paladini, unici in grado di riportare l’ordine ormai perduto.
Eppure, se si guardano i dati diffusi dallo stesso Ministero dell’Interno lo scorso 15 agosto sui tassi di criminalità in Italia, sembrerebbe proprio il contrario. In effetti, pur registrandosi un leggero aumento rispetto allo scorso biennio, c’è da sottolineare che quest’ultimo era un periodo caratterizzato dalle restrizioni dovute alla fase più acuta della pandemia e al conseguente periodo emergenziale, dunque è naturale che i crimini si fossero ridotti notevolmente e in maniera automatica in quel lasso temporale. Se invece ci riferiamo al periodo pre-Covid, notiamo una diminuzione dei reati commessi (da 2338073 a 2116479), in particolare del numero di omicidi. Tuttavia – e forse questo è il dato più preoccupante – per quasi il 40% di questi ultimi si tratta di femminicidi, donne vittime molto spesso dei loro stessi partner o familiari. Ma è proprio rispetto a questi che sembra che non si perseguano politiche serie di prevenzione ed educazione. C’è poco da restare stupiti, in effetti, se si pensa al video di una violenza – in cui la donna era riconoscibile – pubblicato da Giorgia Meloni per portare avanti la sua propaganda razzista.
Intanto, negli ultimi dieci anni le rapine sono diminuite di quasi il 50%, passando da 44228 a 24644 e i furti si sono ridotti di un terzo (da 1549008 a 902014). La percezione delle persone, però, è tutt’altra e quelle che ci vengono presentate sono città invivibili a causa ovviamente di precisi capri espiatori individuati dalla destra nei migranti, nei poveri, in tutti coloro che affollano le sempre più grandi file della marginalità. Una percezione che non corrisponde ai dati né alla realtà dunque, ma che serve a nutrire una vergognosa lotta tra poveri e a portare avanti politiche repressive e carcerocentriche.
Si perseguono quindi quegli stessi modelli che in tutti questi anni si sono rivelati inefficaci e non in grado né di riammettere in società coloro che scontavano una pena né di costruire una società più sicura per tutti, calpestando quella promessa rieducativa che la Costituzione fissa come elemento indispensabile nell’esecuzione della pena. Del resto, è la stessa scelta insensata che viene portata avanti da tempo con le politiche proibizioniste sulle droghe, che si sono dimostrate del tutto fallaci.
A ben guardare, alcune delle operazioni i cui risultati sono riportati nell’ultimo report del Ministero dell’Interno lasciano perplessi poiché sembrano puntare più al cosiddetto decoro, a una forma di ordine fittizio, che a una sicurezza vera e propria. Spiagge sicure, Ordine pubblico (che si riferisce alle manifestazioni di piazza), Controlli antidroga, Contrasto all’abusivismo commerciale e ancora Luoghi sicuri, in cui si riportano gli interventi della polizia locale per la vendita di oggetti contraffatti.
Non mettiamo in dubbio l’importanza anche di tali operazioni, tuttavia non è in esse e nelle loro cause che ritroviamo le ragioni reali del senso di pericolo avvertito dai cittadini. Nessuno di coloro che gridano a gran voce la necessità di maggiore sicurezza ha mai avuto interesse a indagare le ragioni profonde di una simile percezione, da rinvenire probabilmente nell’abbandono sociale, nel precariato, nell’assenza delle istituzioni per quella fetta di popolazione cosiddetta marginale che invece scegliamo proprio come capro espiatorio.
Una simile deriva ha però radici lontane, descritte mirabilmente da Wolf Bukowski ne La buona educazione degli oppressi, in cui si indaga come sia stato possibile arrivare a questo punto, ad avere maggiore considerazione delle fioriere e delle panchine che delle vite umane. Il decoro è stato da sempre utilizzato come strumento della classe dominante per rafforzare la propria ideologia, criminalizzando le lotte sociali, i poveri, i cosiddetti disordinati. Il mezzo principale è la paura, la cui fonte è appunto quella percezione di insicurezza coltivata giorno per giorno da attente comunicazioni allarmistiche, così tanta paura da gettarsi tra le braccia di politici pronti a offrire loro un’interessata rassicurazione autoritaria.
Ma non possiamo illuderci che simili narrazioni siano solo della cosiddetta destra: dal nostro punto di vista, per ciò che il panorama nostrano offre, non c’è più alcuna differenza e le politiche securitarie sono perseguite dovunque, insieme a una comunicazione da far accapponare la pelle. Lo strumento penale sembra l’unico rimastoci, eppure così non dovrebbe essere: c’è davvero un’alternativa?