Da che mondo è mondo, i giovani hanno tutte le colpe. Fannulloni e ingrati, dipendenti dalle nuove tecnologie di turno, traditori di valori spesso indefiniti, probabilmente ignoranti e, oggi, anche irresponsabile causa dell’aumento dei contagi. I giovani sono sempre stati nel mirino di ogni critica, durante quella lotta tra generazioni dalla forma ciclica che si rigenera costantemente. Ma se è consuetudine che se ne vedano solo gli aspetti apparentemente negativi, non è accettabile che proprio loro siano la vittima sacrificale di una società che non si occupa di formarli, di un mondo del lavoro che li rifiuta e di una politica che ne ignora l’esistenza.
Se è la presunta mancanza di lungimiranza a preoccupare gli osservatori esterni dall’alto dei loro retaggi secolari, sarebbe bene immaginare quale grado di frustrazione deve raggiungere l’impossibilità di trovare un impiego e un reddito che rendano autonomi una volta raggiunta quell’età in cui l’indipendenza non è solo un desiderio ma un bisogno, o l’angoscia di gravare apparentemente in eterno sulle finanze genitoriali e, soprattutto, l’avvilente rassegnazione di fronte a un futuro presumibilmente inesistente ma certamente impossibile da pianificare, fatto con ogni probabilità di contratti a breve termine e partite iva quasi sempre atrofizzate.
I dati sull’occupazione giovanile in Italia non sono mai stati particolarmente rassicuranti ma, com’era prevedibile, la crisi pandemica ha assestato il colpo di grazia. Che avrebbe avuto conseguenze sull’istruzione, sull’economia e sulla ricerca del lavoro era chiaro sin dall’inizio, perché è più o meno ciò che accade in seguito a ogni tipo di crisi. Ma in un Paese vecchio come il nostro, in cui l’età media è destinata ad aumentare perché all’incremento della speranza di vita corrisponde un calo delle nascite, quelle poche garanzie che ci restano difficilmente saranno devolute alle minoranze generazionali.
Come già accaduto in passato, se è probabile che saranno proprio loro le vittime più massacrate dalla crisi economica che abbiamo solo iniziato a intravedere, è ancora più verosimile che le risorse da investire per sopperire a un crollo totale del nostro Paese faticosamente saranno destinate alla creazione di posti di lavoro o alla tutela dei giovani. D’altronde, la tendenza è già evidentemente questa, come risulta dalle scarse risorse e dall’inesistente attenzione dedicate a scuola e università da marzo a oggi. Dopo sei mesi dall’inizio dell’emergenza, l’istruzione universitaria non è mai stata nominata tra quelle attività da difendere e garantire, e non c’è bisogno di spiegare ulteriormente quanto i provvedimenti pensati per le scuole siano inadeguati e insufficienti. Lasciati a loro stessi, scuole e atenei dovranno cavarsela con i propri arrangiati mezzi, mentre ai piani alti difficilmente se ne parlerà, dimostrando quanto il futuro delle nuove generazioni conti poco agli occhi di chi ne fa le veci.
Già prima di questo sfortunato 2020, ai più giovani corrispondevano il tasso di disoccupazione più alto e il reddito medio più basso – lo stipendio delle persone nate dopo il 1986 è inferiore all’11% della media nazionale. In più, secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro, durante il lockdown un giovane su sei ha perso il proprio impiego. Tutte le tutele messe in atto dallo Stato, come il blocco dei licenziamenti appena prorogato fino al 16 novembre, hanno garantito che chi avesse un posto stabile e a tempo indeterminato non rischiasse alcunché, mentre sono stati lasciati alla deriva tutti gli altri – come d’altronde accadeva già prima. Non sono state attuate, infatti, misure concrete per tutti quei lavoratori autonomi, con contratti differenti dall’indeterminato e i componenti della cosiddetta economia informale che – guarda caso – ospita il 77% dei lavoratori sotto i 25 anni.
Non è della crisi, dunque, che si tenta di incolpare qualcuno, ma di tutto ciò che c’è stato prima e di quello che ci sarà dopo. Dell’assoluta inefficienza dei metodi d’intervento quanto delle gravose condizioni su cui poggiava l’Italia prima che un virus potesse dare il colpo di grazia a chi già si teneva a fatica in equilibrio. È indubbio che l’esplosione di una pandemia sia un evento inaspettato e incontrollabile, che avrebbe causato danni impossibili da prevedere anche se fossimo stati tutti pronti a un’eventualità del genere. E le conseguenze di una crisi di queste dimensioni sono inevitabili in ogni caso. Eppure, sembra proprio che non si possa dire che essa abbia avuto le stesse conseguenze su tutti. Se in situazioni di normalità la precarietà delle categorie meno tutelate – giovani e donne in primis – esiste più o meno indisturbata, proprio quelle categorie sono inevitabilmente destinate a subire i danni più onerosi all’indomani del tragico periodo che stiamo vivendo.
E allora sembra sempre che i giovani abbiano tutte le colpe, che siano la piaga che infetta la società, quando forse sono solo la vittima che è più facile abbattere. Non è mancato neanche chi, nel periodo di rientro dalle vacanze, ha provato a rintracciare i motivi dell’incremento dei contagi nella loro irresponsabilità, come se da una certa età in poi l’interesse per la collettività fosse garantito. E non si tratta certamente dell’unico caso. Di narrazioni dominanti sull’inettitudine dei millennials ce ne sono a bizzeffe, quasi tutte esagerate e tutte estrapolate dal contesto di invisibilità in cui essi vivono. La più comune riguarda certamente il mito della voglia di lavorare che tanto sembra mancare a chiunque sia nato dagli anni Ottanta in su. È facile, però, dimenticarsi dei tanti che si piegano ai lavori stagionali ridicolmente retribuiti o delle offerte di impiego con equilibri ore-retribuzione a dir poco tragicomici. Per non parlare dell’escamotage più frequente con cui accaparrarsi forza lavoro gratuita: quegli stage e tirocini non retribuiti ai quali i ragazzi si dedicano con la speranza di guadagnarci almeno in esperienza, consci della probabilità bassissima se non nulla che al termine del periodo di formazione si trasformino in impieghi effettivi.
Un altro di quei miti che ci sentiamo raccontare così spesso da credere che siano l’assoluta verità è quello relativo al presunto disinteresse dei giovani a impegnarsi, a mettere su famiglia, a ricambiare lo sforzo di quello Stato che li ha cresciuti, sfornando e allevando potenziale forza lavoro. Se prima della pandemia l’ISTAT prevedeva un calo di 10mila nascite per il 2021, adesso ci si aspetta che si arrivi a 39mila. A sentire i luoghi comuni, però, ai ragazzi interessa ben poco creare una famiglia, sebbene i dati rivelino che sono circa 2 milioni e 200mila i giovani che in Italia vorrebbero un figlio ma non possono permetterselo.
Alla luce di un panorama tanto disastroso quanto invisibile, è difficile immaginare se non un roseo domani, perlomeno un avvenire meno buio di quel che sembra. Ignorare i giovani e i loro problemi rappresenta un rischio per il futuro dell’intero Paese, che non può pensare di continuare a costruire sulle fragili spalle di generazioni destinate a finire. Ed è anche un peccato, a dirla tutta, rinunciare alla potenziale forza motrice del Paese che i giovani potrebbero rappresentare, se solo si riservasse loro una possibilità. Ma finché il lavoro sarà garantito solo a chi ha già una famiglia, difficilmente se ne creeranno di nuove. Finché l’istruzione superiore sarà garantita solo a chi può permettersi costosi affitti nelle città universitarie, saranno troppo pochi i laureati in grado di rivoluzionare il mondo. E finché vigerà l’aberrante consuetudine del tanto sei giovane, hai tempo per essere assunto, essere promosso, essere pagato dignitosamente, difficilmente quel tempo e quel futuro saranno garantiti a noi e al resto del Paese.