Il nome Massimo Bray viene subito associato all’Istituto Treccani di cui oggi è direttore generale. Molti, invece, lo associano al suo ruolo di Ministro per i Beni, le Attività culturali e il Turismo durante il governo presieduto da Enrico Letta. Quel che è certo è che Massimo Bray può essere considerato a tutti gli effetti una voce che fa della cultura un’arma di resistenza e di impegno civile. Una voce che è sempre stata al servizio della cultura in ogni sua forma: dall’arte al cinema, dai festival al teatro, dalla musica alle biblioteche.
Non a caso, il suo libro edito Manni si chiama Alla voce cultura e vuole essere un mezzo per far comprendere quanto essa debba diventare un elemento centrale per la vita politica e sociale. Si tratta di un diario in cui Massimo Bray mette a nudo le proprie emozioni, alternando racconti della sua esperienza ministeriale a momenti più intimi attraverso i quali narra e mostra della sua famiglia, episodi di gioia e di sconforto, rivelando un’umanità che sempre più spesso sembra qualcosa di anomalo e lontano, come se provare sentimenti, essere sensibili, fosse qualcosa che non ci appartiene più. Bray la definisce una breve esperienza istituzionale, eppure è riuscito – nonostante i soli dieci mesi a disposizione – a raggiungere traguardi importanti, seminando quelli che oggi sono raccolti eccezionali.
L’articolo 9 della nostra Costituzione, i cui principali artefici sono stati Concetto Marchesi e Aldo Moro, dice: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione. Ed è proprio con questo articolo che Massimo Bray inizia il suo Diario sospeso della mia esperienza di Ministro, abbracciando un concetto semplice, ma assai difficile da realizzare: ricostruire il senso di comunità. Avremmo bisogno di una sinistra radicale capace di interpretare e fare in modo che la “rabbia sociale” diffusa divenga forza propositiva di politiche capaci di governare il cambiamento, di superare le disuguaglianze, di avere visione del Paese e capacità di immaginare un modello di sviluppo differente, scrive in merito alla sempre maggiore perdita di fiducia della gente verso la politica.
Il suo diario non segue un ordine cronologico, piuttosto segue le esigenze spesso dettate dalla scrittura: il desiderio di ricordare e rivivere persone, momenti precisi e, in qualche modo, tramandarli, far sì che chi legge possa custodire e portare avanti il valore della conoscenza. Massimo Bray riesce a raccontare la cultura a tutto tondo, partendo dalla Treccani fino ad arrivare al Salone del Libro di Torino – in veste di presidente della Fondazione per il libro, la musica e la cultura, si è occupato delle edizioni 2017 e 2018 – proseguendo poi con la narrazione dei suoi viaggi all’estero, in qualità di ministro. Proprio grazie alle esperienze vissute in giro per il mondo, le missioni in Iran, Cile, Giordania e Palestina, si è fatta sempre più forte, in lui, la consapevolezza che il dialogo tra le culture sia una missione importante: Avevo sempre di più la convinzione che occorresse avere visione e capire che si sarebbero dovute mettere in discussione alcune modalità che in questi ultimi trent’anni si sono rivelate inefficaci nelle relazioni internazionali, a cominciare dall’idea di supremazia, alla quale bisogna sostituire quella di rispetto reciproco. Perché oggi anche i beni culturali sono visti come beni di consumo, merci la cui prima finalità è la vendita, lo sfruttamento, perché il vero problema non è l’umanesimo soffocato dalla tecnologia; la vera sfida è tornare a costruire comunità.
Come scriveva Gramsci, una classe dirigente deve essere giudicata dalla cultura, dalla conoscenza e dal rispetto che ha della storia del proprio Paese perché noi non siamo soltanto gli eredi di un patrimonio straordinario, ma ne facciamo parte e abbiamo il diritto e il dovere di far sì che questo patrimonio possa essere fruito, e soprattutto goduto, dalle generazioni future. Per costruire un modello di società differente occorre che questa si radichi nelle idee, nella storia, nella cultura di ognuno di noi, che torni a credere in una democrazia non dominata da un eccesso di “individualismo”, caratterizzata dalle disuguaglianze sociali, e dalla convinzione acritica che il cittadino-utente non abbia più bisogno di mediazioni, che avendo a disposizione tutte le informazioni possa decidere e agire da solo. […] Decisivo sarà il ruolo dell’istruzione, della formazione. Decisivo quello della cultura come collante sociale, della conoscenza come antidoto ai pericoli di una società che alla dignità dell’individuo sembra voler sostituire nuove forme di esclusione e di emarginazione, che al coraggio di affrontare le sfide del futuro sembra decisa a difendere, come in un fortino, i privilegi e le certezze del presente.
Nella legge Valore Cultura Massimo Bray, convinto che fosse proprio il Mezzogiorno il giusto simbolo della rinascita del Paese, ha dedicato il primo articolo a Pompei. È stata la sua lungimiranza, ignorando suggerimenti improbabili da parte di una politica che raramente si interessava a questi argomenti e andando oltre le critiche pubblicate dai giornali, a far sì che gli scavi potessero rinascere ed è stato lui a nominare Massimo Osanna e Giovanni Nistri come responsabili. Nella sua, purtroppo breve, esperienza, infatti, il Ministro ha dato nuova vita a tante altre realtà culturali. Alcune di queste sono la Reggia di Carditello e quella di Caserta, Sibari, i Bronzi di Riace, Taranto, la Notte della Taranta.
Massimo Bray non ha avuto vita facile durante i dieci mesi al MiBACT e, nonostante il suo andare controcorrente, seguire quelle che erano e sono le sue ferme convinzioni, valori intoccabili legati alla cultura, è riuscito a costruire delle basi solide che, ancora oggi, possiamo vedere in piedi. Un uomo “normale”, come spesso viene definito e traspare dalle pagine del suo libro, che è andato oltre ogni critica sterile, dedicando il suo tempo alla cultura e alla voce che deve riacquistare, al tanto lavoro che c’era e c’è da svolgere. Una persona autentica, dai valori autentici. Non ci si può non chiedere cosa avrebbe potuto fare se avesse avuto più tempo, se fosse ancora oggi ministro.
Solo una società che sa educare i cittadini a pensare che “pubblico” non significa “di nessuno”, ma anzi “di tutti” e quindi “anche mio”, e in quanto tale da preservare “come fosse mio”, solo una società in grado di fare questo può considerare il suo patrimonio ambientale al sicuro da scempi e speculazioni. È un compito del quale ogni cittadino deve sentirsi in prima persona investito, ma che le istituzioni hanno il dovere di recepire e attuare con un nuovo moto di responsabilità e con una migliore capacità di azione.
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