La scrittrice Virginia Woolf – come racconta Nadia Fusini, professoressa, autrice e studiosa appassionata della Woolf, nell’introduzione al romanzo de La signora Dalloway del 1925 – sostiene di aver messo al centro dell’opera il conflitto vita/morte attraverso i personaggi principali: Clarissa e Septimus.
I due passeggiano per la stessa strada ma non si incontrano, non si incrociano nemmeno di sfuggita, anche perché Clarissa torna presto a casa e sarà proprio presso il suo salotto che platonicamente troverà Septimus alla fine del romanzo. I due si incontrano quando il tempo della vita e il tempo della morte sembrano coincidere nel tempo della festa e cioè quando il momento di massimo splendore per Clarissa coincide con quello di massima disperazione per Septimus.
La signora Dalloway, durante la sua festa, viene a sapere che, qualche istante prima, un uomo si è ucciso buttandosi dalla finestra. L’uomo che si è ammazzato per scappare dai suoi mostri, l’uomo che l’ha fatta finita, è Septimus Warren Smith e la padrona di casa, circondata dagli affetti più cari, dagli amori di una volta (Sally e Peter) e una serie di altri ospiti dell’alta società, venendo inondata da questa improvvisa notizia di suicidio di uno sconosciuto, non può che ritirarsi in una solitudine rimediata nel mezzo del frastuono dei presenti.
Amare rende soli. Clarissa, non c’è dubbio, ama la vita e, di fronte alla morte che si autoinvita alla sua festa, reagisce col proteggersi per un momento nel suo io. Sparita dalla scena, Dalloway si lascia distrarre dalla visione di una vecchia signora nella casa di fronte, che scandisce un tempo tutto suo, fatto di piccoli movimenti qua e là per la stanza, mentre si prepara per andare a dormire subito dopo che avrà chiuso la tenda.
Di contro a quella calma di rituali cadenzati dalla vecchia signora, batte forte l’orologio della festa, della vita, della morte e, sentendo le voci e le risate degli ospiti, Clarissa pensa di dover ritornare da loro, ripensa al giovane che si è ucciso in un altrove proprio durante il suo party e lo choc iniziale per l’interruzione del normale flusso vitale della festa viene superato con l’immedesimarsi nella morte di lui. La signora Dalloway in questo era brava: avere costantemente il senso dell’esistenza dell’altro.
Così, mentre la vecchia signora si addormenta nel sonno profondo della notte che è un po’ come morire, Clarissa dà l’impressione che riveda, attraverso lo specchio dell’esperienza tragica di Septimus, la parte di lei che non c’è più, quel senso della giovinezza perduta, che di solito ritrova lievemente quando, per esempio, guarda il cielo. Riconosce, allora, quella sensazione di pericolo con la quale si era svegliata quel mattino di giugno, si sente salva rispetto all’uomo che non è riuscito a redimere il suo presente (ma è riuscito a salvare la sua giovinezza) e si assume, infine, il castigo di veder sprofondare l’altro nella morte, e dover restare lì, in piedi, nel suo vestito da sera.
Come fosse prima una colpa e poi un sollievo continuare a vivere, Clarissa recepisce il messaggio dello sconosciuto che ha fatto irruzione ai festeggiamenti nella sua veste di morte (essendo la morte un tentativo di comunicare). Solo allora può tornare alla festa e immettersi di nuovo in quella chiacchiera danzante degli invitati dove tutti sono guardati e giudicati da più punti di vista, in quella dimensione di mondanità alla quale la signora Dalloway sa di appartenere alla perfezione – così a suo agio tra “apparenze” e “trionfi” – una dimensione che però ha sempre avuto un vuoto agli occhi di Peter Walsh, lo stesso vuoto di un cuore senza amore.
Proprio tramite gli occhi di Peter abbiamo visto Clarissa, agghindata per la festa in un vestito verde argento da sirena, con gli orecchini e i capelli raccolti in trecce, accogliere con elegante naturalezza i suoi ospiti; e di nuovo attraverso gli stessi occhi la vediamo, sul finale, ricomparire in salotto avvolta da un alone di terrore e di estasi che la precede.
Arrivati all’ultima pagina de La signora Dalloway ci si chiede, però, se sia davvero la fine e, nel contempo, se ci sia stato un vero inizio. Perché è come se tutto possa sempre iniziare daccapo, come se Septimus Warren Smith non si sia ancora ucciso, come se i fiori per la festa si debbano ancora acquistare; come se chiunque possa rivivere e morire ancora, come se l’orologio possa ricominciare senza tregua:
Così si raccolgono, si sollevano, e ricadono, si raccolgono e ricadono ancora le onde in un giorno d’estate; e il mondo intero sempre più gravemente sembra che dica “è tutto”, finché anche il cuore, che sta nel corpo disteso sulla spiaggia al sole, dice, è tutto. Ma è davvero tutto?
Alla festa di Mrs Dalloway: “quell’attimo di giugno” (pt. 1)