Alita è un film con due padri e due anime. Il progetto, trasposizione del manga originale di Yukito Kishiro del 1990, è stato accarezzato da James Cameron per più di vent’anni: non potendo dedicarvisi perché impegnato con l’infinita produzione di ben quattro sequel di Avatar, però, ne ha affidato la regia a Robert Rodriguez, riservandosi il ruolo di produttore e co-sceneggiatore. Rodriguez, autore messicano specializzato in raffinate riletture pop, spesso relativamente a basso costo, di tanto immaginario di genere (Dal tramonto all’alba, la trilogia del Mariachi, Sin city, Planet terror, Machete) si è trovato così, per la prima volta, a gestire un budget di ben 200 milioni di dollari per realizzare una storia che si inserisce in quel genere e in quella estetica cyberpunk che lo stesso Cameron ha contribuito a costruire con film quali Terminator e Aliens.
E, infatti, la trama è intrisa di temi cari all’autore canadese come la fusione corpo umano-macchina, che viene declinata nella figura ormai tipica del cyborg, un certo romanticismo disperato, una visione distopica del futuro e un’eroina coraggiosa e indomita che prende coscienza di sé. Il tutto frullato da quel certo gusto dell’eccesso e dell’azione tipici di Rodriguez, qui però tenuto a freno da una macchina produttiva imponente. Attenzione, ciò non significa che Alita non sia provvisto di un cuore emozionale pulsante – con nucleo anti-materico in questo caso – perché, come in altre storie di Cameron, l’empatia per i personaggi è fondamentale:come si può, infatti, non caldeggiare per i grandi occhioni tipicamente manga di Alita, cyborg gettato in una discarica e ritrovato dal dottor Ido, interpretato da un bravissimo – avevamo dubbi? – Christoph Waltz che, novello Geppetto, se ne prende cura e le dona un corpo nuovo?
Tramite lo sguardo candido di Alita, che ha perso la memoria, lo spettatore può esplorare il futuro del 2563 che inevitabilmente non può non fare i conti con i tanti mondi che il cinema sci-fi (science film) distopico ci ha già offerto in passato, non ultimo le baraccopoli dello spielberghiano Ready player one (2018) che qui vengono decisamente richiamate dalla Iron City nella quale vive la protagonista, nonché la città sospesa di Zalem che ricorda Elysium (2013) di Blomkamp, oppure lo sport ultra-violento che serve a distrarre le masse, rubato dal classico Rollerball di Norman Jewison del 1975. A differenza della piovosa Los Angeles del 2019 di Blade runner (altro riferimento nel genere), però, la Città di Ferro è soleggiata e calda come Mexico City, anche se la desolazione morale è la stessa.
Tutto già visto sembrerebbe, se non fosse che il mondo immaginato da Kishiro nel 1990, sebbene debitore di film, fumetti e letteratura precedenti, è comunque anteriore all’ondata fantascientifica successiva. Inoltre, a fare la differenza, come si diceva, è il bellissimo personaggio di Alita che, con i suoi grandi occhioni – ottenuti con un incredibile lavoro di CGI e Performance Capture, a opera della neozelandese Weta fondata da Peter Jackson, applicato al volto dell’intensa attrice peruviana Rosa Salazar –, si sbalordisce per il mondo, gusta per la prima volta il cioccolato e scopre perfino l’amore. Ma soprattutto, tramite il risvegliarsi di riflessi inconsci che ricorda non poco il modo in cui Jason Bourne riscopriva i suoi istinti assassini da ex killer della CIA nel primo film dell’omonima serie spionistica, la protagonista comincia a riscoprire frammenti del suo passato. È qui che il tema del corpo artificiale diviene fondante perché è proprio tramite l’acquisizione di una nuova struttura che Alita può cominciare un percorso di riscoperta della propria identità. Percorso che, si intuisce, non si concluderà con questo film, e che, se andrà bene al botteghino, potremo continuare a seguire in futuro.
La riscoperta di memorie ancestrali sepolte dentro di sé richiederebbe certamente una lettura esoterica che sarebbe interessante sviluppare in altra sede, anche in considerazione del nome della città sospesa in cui vivono gli eletti e i privilegiati del mondo di Alita e, cioè, Zalem (da JeruSalem), chiaro richiamo alla Gerusalemme celeste, luogo spirituale al quale l’iniziato aspira dopo un percorso di riscoperta del divino celato dentro di sé. L’analogia con il percorso di Alita, che tra l’altro proviene proprio da Zalem, è evidente.
Va detto che tra le due anime del film prevale certamente quella di papà Cameron, mentre il guizzo di Rodriguez è rinvenibile soltanto in alcuni elementi, come per esempio nella divertente scena della bettola dei cacciatori di taglie nella quale ritroviamo il gusto tipicamente rodrigueziano per certi personaggi da immaginario di serie B, qui incarnato dall’immancabile attore feticcio Jeff Fahey, interprete di un esilarante cyborg texano con tanto di cappello Stetson in testa e muta di cani robot al seguito, ai quali tra l’altro è affezionatissimo. Peccato solo che Rodriguez non abbia potuto esplorarlo ulteriormente.
La sceneggiatura non sempre funziona a dovere nel senso che, se il dottor Ido è tratteggiato molto bene, con una dolcezza paterna inusitata per un personaggio interpretato da Waltz, il ragazzo Hugo – il cui volto belloccio, interpretato da Keean Johnson, stride con l’estetica sporca del film – risulta un po’ insulso a confronto con l’intensità e la spontaneità di Alita. Anche un’attrice del calibro di Jennifer Connelly risulta sprecata con un personaggio – Chiren, l’ex-moglie di Hido – poco approfondito che vive un arco narrativo troppo veloce e quindi non proprio credibile. Perfino Mahershala Ali (star di Green Book e della terza stagione di True detective, lanciato dalla serie House of cards), nel ruolo del villain Vector, non brilla e non certo per mancanze dell’attore. Non sveliamo invece l’identità attoriale di un altro personaggio visibile soltanto alla fine.
I veri punti di forza di Alita sono da un lato le scene d’azione – in cui Rodriguez è maestro – coreografate, dirette e montate in modo magistrale, tant’è che non se ne perde mai il centro d’interesse – cosa che, invece, succede con tanti film dello stesso genere –, dall’altro è lei, Alita, cyborg dallo sguardo naif che si stupisce per il mondo che la circonda e, a differenza di Pinocchio che vorrebbe diventare un bambino in carne e ossa, va fiera del suo retaggio artificiale, anzi, proprio il suo nuovo corpo cibernetico le consentirà non solo di accedere al proprio passato, ma anche di sviluppare una sorta di coscienza di classe, con inevitabili rimandi all’androide Maria del classico di Fritz Lang Metropolis (1927).
Il film, come anticipato, non chiude la vicenda e infatti copre solo i primi due volumi del manga originario che composto di ben nove libri. Resta, così, nello spettatore, la voglia di esplorare ulteriormente il mondo di Alita che per ora è stato solo introdotto, di scoprire ancora nuovi frammenti del suo passato, nonché di vedere come si evolverà la sua vicenda che, se porta a termine alcune sotto-trame, ne lascia in sospeso altre, come è normale che sia in ogni origin-story che si rispetti.